Profilo biobibliografico di S. Alfonso

Un umanista del ‘700 italiano – Alfonso Maria de Liguori
1. Profilo biobibliografico di S. Alfonso

Indice
1. Educazione e formazione
2. L’ingresso e l’addio ai tribunali
3. “Non aveva tempo a poter respirare”
4. Le missioni
5. Il fondatore
6. Il Vescovo
7. Al servizio del Vangelo con penna e pennello
8. Caratteristiche dei suoi scritti

1. Educazione e formazione
Alfonso nacque il 27 settembre 1696 nella villa estiva del padre, Giuseppe de Liguori, ufficiale della flotta reale, a Marianella, a soli8 chilometridal capoluogo campano che allora fungeva da capitale del Regno dato che il titolo di capitale, di fatto e di diritto, spettava a Madrid.

Come il padre, anche la madre, Anna Cavalieri, apparteneva a una famiglia nobile e prestigiosa: i marchesi spagnoli di Avenia.
Sia l’uno che l’altra influirono profondamente sull’educazione religiosa del bambino: lei, con la dolcezza, e lui, con la decisione, guidarono il piccolo ad una devozione tanto intensa versola Vergine, verso l’Eucaristia e versola Passione di Gesù che tutta la sua esistenza, fino agli ultimi istanti, ne resterà segnata.

Gaetano, un fratello di Alfonso, in una testimonianza riportata dal primo biografo del Santo ci fa sapere che «ogni mattina la santa donna era sollecita in benedire i suoi figli, e far da questi prestare a Dio i dovuti ossequi; che ogni sera, avendoli radunati intorno a sé, li ammaestrava ne’ rudimenti cristiani; recitava con essi il santo Rosario, e soddisfaceva ad altre preci in onore di altri santi; ch’era attenta a non farli conversare con altri uguali; ed affinché la grazia prevenuta avesse la malizia, ed i figlioli di per tempo avvezzati si fossero ad odiare il peccato, ogni otto giorni portaveli con sé a confessare nella chiesa de’ PP. Girolimini, dal P. D. Tommaso Pagano suo confessore, e loro parente» (1).

Alfonso, come i giovani delle famiglie facoltose, ricevette l’istruzione umanistica e scientifica in casa, sia per evitare di rovinarsi nell’inevitabile incontro con qualche coetaneo corrotto, sia per essere controllato meglio e bruciare le tappe sfruttando al massimo le notevoli doti intellettive. E con una precocità che ha dell’incredibile, a 12 anni non ancora compiuti aveva terminato con brillanti successi gli studi primari e secondari. Il suo primo precettore, l’ottimo sacerdote calabrese don Domenico Buonaccia, alla fine degli studi del ragazzo, formulò questo giudizio: «Si fa fede per me sottoscritto, pubblico professore di grammatica, discipline umanistiche e poesia in questa città di Napoli, anche sotto giuramento tatto pectore, che don Alfonso de Liguori sotto la mia guida si è dedicato alle lettere umanistiche con ogni solerzia e con tutte le sue forze» (2). 

2. L‘ingresso e l’addio ai tribunali
Avviato dal padre alla magistratura fu immatricolato all’università dopo aver superato, nel settembre del 1708; un esame davanti a Giambattista Vico. Conseguì il dottorato in diritto civile ed ecclesiastico il 21 gennaio 1713, asoli 16 anni e 4 mesi, con questo giudizio: Summo cum honore maximisque laudibus et admiratione.

Forse durante l’ultimo anno di università, comunque non più tardi della fine del primo anno di tirocinio, si era imposto, in quanto avvocato, un comportamento morale, programmato in dodici massime che meditava spesso. Un condensato di,etica professionale, che vale la pena conoscere per capire fino in fondo la competenza e la rettitudine morale di questo avvocato diciannovenne giudicato, nei salotti bene e nelle conventicole aristocratiche, «competente, maturo, instancabile e capace».

Questi dodici “articoli” del suo regolamento professionale «l’avea in una cartolina, e spesso li meditava».

  • 1. Non bisogna accettare mai Cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza, e pel decoro.
  • 2.  Non si deve difendere una Causa con mezzi illeciti, ed ingiusti.
  • 3.  Non si deve aggravare il Cliente di spese indoverose, altrimenti resta all’Avvocato l’obbligo della restituzione.
  • 4.  Le Cause dei Clienti si devono trattare con quell’impegno, con cui si trattano le Cause proprie.
  • 5.  È necessario lo studio dei Processi per dedurne gli argomenti validi alla difesa della Causa.
  • 6.  La dilazione, e la trascuratezza negli Avvocati spesso dannifica i Clienti, e si devono rifare i danni, altrimenti si pecca contro la giustizia.
  • 7.  L’Avvocato deve implorare da Dio l’ajuto nella difesa, perché Iddio è il primo Protettore della giustizia.
  • 8.  Non è lodevole un Avvocato, che accetta molte Cause superiori a’ suoi talenti, alle sue forze, ed al tempo, che spesso gli mancherà per prepararsi alla difesa.
  • 9.  La Giustizia, e l’Onestà non devono mai separarsi dagli Avvocati Cattolici, anzi si devono sempre custodire come la pupilla degli occhi.
  • 10.  Un Avvocato, che perde una Causa per sua negligenza si carica dell’obbligazione di rifar tutt’i danni al suo Cliente.
  • 11.  Nel difendere le Cause bisogna essere veridico, sincero, rispettoso, e ragionato.
  • 12.  Finalmente, i requisiti di un Avvocato sono la Scienza, la Diligenza, la Verità, e la Giustizia (3). 

Dopo due anni di tirocinio, prima presso il celebre avvocato Luigi Perrone e poi presso l’illustre giureconsulto Andrea Jovene, iniziò la professione di avvocato che esercitò dal 1715 fino al 1723, divenendo celebre per la competenza, per le capacità naturali, per l’onestà e per non aver mai perso una causa.

Ma nella primavera del 1723 arrivò anche per lui, improvviso e imprevisto, il momento della sconfitta e della ribellione.
In un processo confuso e contorto e dai risvolti internazionali, che opponeva gli Orsini di Roma al granduca di Toscana, sostenuto da Carlo VI d’Austria, de Liguori difendeva gli Orsini. Era sicuro del successo anche quella volta, sia per l’intrinseca onestà della causa da lui difesa, sia per la fondatezza e l’abbondanza delle argomentazioni prodotte, sia perché il presidente del tribunale, che era il Caravita suo amico, gli aveva assicurato che per diritto il feudo di Amatrice, movente dell’interminabile processo, era di proprietà degli Orsini. Ma i maneggi della corte di Vienna e la venalità dei giudici imposero al tribunale una sentenza favorevole a Cosimo III de’ Medici.

Davanti alla palese ingiustizia, Alfonso, abbandonando l’aula, ripeteva: «Mondo, ti ho conosciuto. Addio, tribunali!».
La decisione di abbandonare l’attività forense fu irremovibile, nonostante le affannose insistenze dei genitori, dei parenti, degli amici, degli stessi colleghi. Dopo giorni di riflessione, cominciò a maturare in lui l’esigenza di una fede più viva e la necessità di dedicarsi totalmente al servizio dei poveri, dei quali abbondavano Napoli e le zone limitrofe. E il 27 agosto di quello stesso anno, nella chiesa della Madonna della Mercede, si consacrò a Dio e alla sua Madre santissima. 

3. “Non aveva tempo a poter respirare”
Ordinato sacerdote nella cattedrale di Napoli il 21 dicembre 1726, si diede subito alla predicazione diretta, alla quale l’esercizio dell’avvocatura lo aveva preparato. Divenne uno dei più celebri predicatori del Settecento italiano.
«Asceso al sacerdozio, si può dire che videsi così affollato di fatiche, che non aveva tempo a poter respirare. Una occupazione non era sbrigata, che già era invitato per l’altra; e facevasi a gara dai rettori delle chiese a chi prima lo poteva avere… Le chiese di maggior concorso e di prima figura in Napoli si prevenivano l’un l’altra per averlo specialmente nelle solennità delle Quarantore» (4).

Nell’oratoria sacra fu, prima, geniale innovatore staccandosi nettamente dall’uso e dalla mentalità del tempo; poi, maestro impareggiabile sia con l’esempio pratico sia con l’insegnamento teorico.
Gli argomenti centrali della sua predicazione erano: l’amore di Gesù Cristo per le anime; la risposta riconoscente dell’uomo verso colui che, per la sua salvezza, ha dato la vita sulla croce; la devozione versola Madre di Dio, mediatrice di grazie; la necessità della preghiera.

Con una diecina di sacerdoti e numerosi laici, diede vita all’istituzione delle cappelle serotine. Ogni sera, dopo le fatiche diurne della predicazione e delle confessioni, spiegava una verità di fede o una virtù cristiana ai convenuti. I luoghi dell’appuntamento erano d’ogni genere: un angolo di piazza, un largo tra i tuguri, il retrobottega di un barbiere, una chiesa abbandonata, una casa di amici.
E gli ascoltatori? Alfonso, scrive Tannoia, «per lo più operava nel Mercato e nel Lavinaro, ove era la feccia del popolo napoletano; anzi godeva vedersi, circondato dalla gente più vile, come sono i Lazzari, così detti, e da altri di infimo mestiere» (5): servi, garzoni, muratori, operai in genere, pescatori; ma non mancarono uomini di una certa levatura economica, sociale e culturale, come artigiani, commercianti, impiegati.

Le cappelle, o adunanze, costituirono la grande invenzione profetica di Alfonso. Responsabili e guide di ognuna di esse non erano preti; ma semplici battezzati che seppero collaborare con lo Spirito Santo. De Liguori e i suoi amici sacerdoti avevano il compito di istituire e organizzare i gruppi, non di condurli: confessare e celebrare l’eucaristia.
Le cappelle – oltre alla funzione specifica dell’insegnamento catechistico, della preghiera soprattutto mentale, dell’annuncio, fuori e dentro di essa, dell’amore di Cristo – furono anche efficace mezzo di educazione sociale, di miglioramento dei rapporti umani e di risanamento della moralità pubblica e privata. 

4. Le missioni
Verso la metà di giugno del 1729, Alfonso lasciò definitivamente la casa paterna ed entrò nel Collegio dei Cinesi, una istituzione fondata appena due mesi prima da don Matteo Ripa con lo scopo di raccogliervi cinesi, indiani, napoletani, per prepararli a portare il Vangelo nell’estremo Oriente.

Mentre si disponeva a partire per la Cina, continuava a darsi anima e corpo alla predicazione delle missioni nella Campania, poi nelle Puglie. Durante queste predicazioni cominciò a rendersi conto che esisteva un altro mondo, al di là di Eboli, dove Cristo, secondo un proverbio locale, non era ancora arrivato; un mondo di miserie abissali, di ingiustizie ataviche, di inaudita ignoranza culturale e religiosa. Campagna, Caggiano, Pietrafesa, Satriano, Salvia, Sant’Angelo.. Si era in piena Cina napoletana. Alfonso fece, per la prima volta, la, sconvolgente esperienza del mondo dei veri abbandonati, dei sottosviluppati autentici, degli eterni dimenticati, dei “dannati della terra”.
Alla vista di quella miseria impossibile restò profondamente scosso e tornò a Napoli, straziato da questa domanda: «Chi spezzerà il pane della parola di Dio a quelle anime abbandonate?». Ma non ebbe il tempo di trovare una risposta soddisfacente a questa domanda che gli serrava il cuore perché missioni ed altri lavori apostolici si susseguirono a ritmo serrato fino al 7 maggio 1730; cioè fino al momento in cui tutte le sue forze si esaurirono tanto da fargli rischiare la vita.

I medici del corpo e quelli dell’anima gli imposero assoluto riposo e gli consigliarono l’aria balsamica e salutare delle riposanti coste amalfitane. Docile come sempre, si portò, insieme con altri cinque preti, sulle incantevoli alture di Scala, immediatamente sopra Amalfi, nel romitaggio di S. Maria dei Monti.
Qui Alfonso e i suoi compagni rimasero alcune settimane, continuamente avvicinati da pastori, contadini, montanari, ai quali rivolgevano parole di conforto e di speranza, insegnavano il catechismo e davano, dopo averne ascoltate le confessioni, la comunione.
De Liguori raccontava che «buona parte di quei contadini vivevano all’intutto dimentichi di Dio; e quello,ch’è .più, perché lontani da’ paesi, ignoranti ancora delle cose più necessarie; anzi tanti e tanti non si potevano abilitare alla confessione se prima non s’istruivano e dirozzavansi ne’ primi rudimenti della Fede» (6).
Ripartì per Napoli «con la nuova risoluzione di istituire una congregazione di missionari, tutta addetta alla coltura della gente più abbandonata della campagna» (7). 

5. Il fondatore
Più tardi, tale decisione trovò anche l’appoggio di una veggente, suor Maria Celeste Crostarosa, della comunità delle Visitandine del Conservatorio della Concezione di Scala. Questa monaca, il 3 ottobre 1731, rapita in estasi davanti al santissimo Sacramento, aveva visto Alfonso in compagnia di s. Francesco d’Assisi.
«Allora il Sig.re disse alla Religiosa: Quest’anima è eletta per Capo di questo mio Istituto, egli sarà il primo Superiore nella Congregazione delli uomini» (8).
L’istituto, che si chiamerà Congregazione del SS. Redentore, ebbe inizio a Scala (Salerno), il 9 novembre 1732. Oggi conta circa 6200 redentoristi, presenti in 52 nazioni dei cinque continenti.

A Scala, per loro fu sistemata una casa isolata, a poche decine di metri dalla cattedrale, con una vigna intorno. Fu la loro prima residenza. Oggi è conosciuta come Casa Anastasio, dal nome della famiglia che l’acquistò nel 1776.
Dopo 6 anni di permanenza a Scala, motivi pratici e pastorali indussero Alfonso e i suoi compagni ad abbandonare il luogo dove era germogliata la nuova fondazione.
Il 27 agosto 1738 si recarono a Ciorani, dove costruirono la prima casa di proprietà dell’istituto. Da qui e dalle altre case che verranno erette successivamente (Pagani, nel 1743; Deliceto, 1745; Materdomini, 1746; Sant’Angelo a Cupolo, 1755), si mettevano continuamente in viaggio per portare l’annuncio del Vangelo attraverso quella forma di predicazione detta missione popolare. 

6. Il Vescovo
I19 marzo 1762 fu nominato vescovo di Sant’Agata dei Goti (Benevento). Ritenendosi troppo vecchio e fisicamente malandato, spedì subito a Roma una lettera di rinuncia che naturalmente non fu accettata.
Per essere esaminato davanti al Sommo Pontefice e per ricevere l’ordinazione episcopale, giunse a Roma il 25 aprile e fu ospitato dai Pii Operai, nella comunità unita alla chiesa della Madonna dei Monti.
Riservò la prima visita alla basilica vaticana, dove, davanti all’altare della confessione, rimase estatico per più di un’ora. Poi passò a venerare la statua di s. Pietro.
Poiché Clemente XIII in quei giorni stava a Civitavecchia, de Liguori decise di fare un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto.

Il viaggio verso la cittadina marchigiana, come quello da Napoli a Roma, «fu una continuata unione con Dio. Precedeva la mattina una lunga meditazione con altre preci: inde le ore canoniche, visita a Gesù sagramentato, e visita, rosario e litanie a Maria Santissima; e voleva che il servitore ed anche il vetturino recitato avessero il Rosario a capo scoperto. Suffragava ancora con varie orazioni le Anime de’ Defonti; e non consumi tutto il tempo di più fino a mezzo giorno che in canzoni divote ed in discorsi santi col P. Villani… Tre giorni stiede  in f Loreto, ma non è da esprimersi la consolazione che provò visitando la s. Casa. Non osservava, ma meditava le più minute circostanze. Estatico, sentivasi ripetere: – Quí il Verbo Eterno si ‘è fatto uomo: qui Maria santissima avevalo tra le braccia —. Una mattina, avendo fatto appartare il P. Villani, volle restar solo, e buona pezza di tempo si trattenne orando dietro del focolaio» (9).

Tornò a Roma 1’8 maggio. La sera di quello stesso giorno, vi tornò anche il Pontefice, che lo riceverà più volte al Quirinale. Qui, il 14 giugno, Alfonso sostenne gli esami; terminati i quali, supplicò il Papa: «Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi vescovo, pregate il Signore perché non mi danni l’anima».
Fu consacrato il 20 giugno, nella cappella del Salvatore, nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.
L’8 luglio raggiunse la sede vescovile, Sant’Agata dei Goti, accolto festosamente dalla popolazione che lo aveva conosciuto alcuni anni prima durante la predicazione di una missione.
Il suo primo impegno fu quello di riorganizzare il seminario per preparare veri e buoni pastori al popolo di Dio.

Nel 1775 Pio VI non poté fare a meno di accettare la sua rinuncia all’episcopato perché ormai Alfonso si trovava, come gli dissero due padri redentoristi, in uno stato da far compassione, mezzo cieco e sordo, e così oppresso da tanti mali da non sembrare più uomo. Il 27 luglio dello stesso anno mons. de Liguori, che per consiglio dei medici dal 1766 viveva ad Arienzo, partì per Pagani, dove vivrà altri dodici anni scrivendo libri, ricevendo gente, pregando.
Vi morì alle ore 12 del mercoledì, primo giorno del mese di agosto, dell’anno 1787.

Fu canonizzato da Gregorio XVI il 26 maggio 1839. Pio IX lo dichiarò dottore della Chiesa il 7 luglio 1871. Pio XII, i126 aprile 1950, lo elesse patrono dei moralisti e dei confessori. 

7. Al servizio del Vangelo con penna e pennello
Alla predicazione missionaria in favore delle anime «più destituite di spirituali soccorsi», Alfonso affiancò l’apostolato attraverso la stampa, sia per rendere la sua azione più salda sia per giungere anche dove non poteva arrivare con la voce.

A quotidiano contatto con le anime, si era accorto che la prima causa della loro rovina morale e spirituale era l’insufficiente preparazione dottrinale dei preti e dei vescovi, erano le loro deleterie incertezze nell’azione pastorale, specialmente nel ministero della confessione, era il loro scarso interesse per la gente di campagna e per le masse popolari, che erano le più bisognose di aiuti spirituali. Si era convinto, come scriverà nella quarta istruzione della Selva di materie predicabili, che «la ruina del mondo sono i mali predicatori e i mali confessori». Perciò scrisse Riflessioni utili ai Vescovi con lo scopo di risvegliare in loro lo zelo per la salvezza delle anime; e le inviò a tutti i vescovi italiani.

Preparò un sistema di dottrina morale che farà dell’ex avvocato uno dei più celebri moralisti cattolici di tutti i tempi, un prudente innovatore nella prassi comportamentale del suo secolo, il patrono dei confessori e dei moralisti.

Il suo primo lavoro è costituito dalle Adnotationes in Busembaum, pubblicato nel 1748, dopo cinque anni di fatiche..Le Adnotationes non furono il punto di arrivo, bensì l’inizio di un lavoro enorme, scientifico e originale, che portò Alfonso su posizioni e soluzioni nuove: abbandonato il probabilismo del Busembaum, propose il suo sistema – poi chiamato equiprobabilismo – col quale restituì alla ragione e alla libertà umana la dignità che a loro aveva tolto il rigorismo giansenista, e rinsaldò i fondamenti della legge divina corrosi dal lassismo. Era la sua grande Theologia moralis.

L’opera, in due tomi di complessive 1474 pagine, apparve a Napoli nell’autunno del 1753, la prima parte, e nella primavera del 1754 la seconda. E fu subito un successo, anche editoriale: fino alla morte dell’autore fu edita ben nove volte.

Ma dal grosso pubblico, più che come moralista, è conosciuto come autore di opere spirituali, universalmente note e capaci di educare generazioni di fedeli. Lo storico Henri Daniel Rops, nella monumentale Storia della Chiesa, lo ha immortalato con questo giudizio: «Da questa esistenza (di Alfonso), che era parsa interamente votata all’azione, sorgeva un’opera scritta di dimensioni considerevoli, una dottrina spirituale di ricchezza uguale all’ampiezza. Giacché, e questo è indubbiamente il segno di un autentico genio, quest’uomo che abbiamo visto interamente assorbito dall’apostolato, passare i suoi giorni a tener missioni, a predicare, a confessare, si rivelò contemporaneamente un pensatore, un teorico, uno scrittore stupendo di cose spirituali… Considerando a due secoli di distanza il pensiero di sant’Alfonso Maria de Liguori, non possiamo non constatare ch’esso portava in sé tutti i grandi elementi del cattolicesimo, quale l’abbiamo visto sbocciare dopo la crisi rivoluzionaria» (10). 

8. Caratteristiche dei suoi scritti
I suoi libri sono tutti pervasi da un senso di serenità, di fiducia, di speranza. Hanno la capacità di ridare posto alla fantasia e al..sentimento, , senza negare alla ragione, più pratica che speculativa però, il posto relativo: «Sant’Alfonso riconosce agli affetti un ruolo di primo piano nella pedagogia spirituale. Egli ha un senso concreto dell’uomo, lo afferra in tutto il suo spessore antropologico. Alla ragione affianca il cuore, alla riflessione il sentimento. Una caratteristica che conferisce alle pagine del santo un sapore universalmente ammirato, che anticipa in qualche modo il romanticismo» (11).

I suoi scritti hanno un linguaggio semplice e immediato, comprensibile a tutti, allora e oggi: «Con i suoi scritti brevi, pratici, immediati ed infuocati, sant’Alfonso è come per vocazione innata l’autore più vicino alla gente, agli umili, ai semplici. Un vero amico del popolo» (12).
«L’impegno mio è di scrivere le cose con tal chiarezza che le capiscano tutti, e mi dicono la gente che in ciò hanno qualche pregio l’opere mie, perché vi trovano spiegate con chiarezza le cose più difficili» (13).
La stessa semplicità, chiarezza e brevità che distinguevano anche la sua predicazione: «Non vi erano frasche nelle sue prediche ed apparati vani d’inutili erudizioni. Tutto era nerbo e sostanza, con istile piano e familiare» (14). Dietro questo stile così asciutto, è chiaramente presente l’unica finalità della sua oratoria, come della sua attività di scrittore: «Non per ritrarre vane lodi, ma per procurare la salute delle anime».,.

Allo stesso stile volle che si attenessero anche i suoi congregati: un parlare semplice e popolare, così popolare che pure un idiota, per quanto sprovveduto, capisse il sermone e ne traesse profitto. E non mancava di punire i trasgressori di questa regola.
Ha codificato tali principi sull’oratoria sacra nella Lettera a un religioso amico sulla predicazione apostolica. I modelli pratici di essa li troviamo nella Selva di materie predicabili e nei Sermoni compendiati.
E per dar forza alle sue idee, si è servito del libretto del dotto e celebre L. A. Muratori sull’Eloquenza popolare; che ha riassunto nella quarta istruzione della seconda parte della Selva.
Gli scritti dei suoi contemporanei – più celebrati e ricordati di lui, come G.B..Vico, A. Genovesi, P. Giannone, C. Beccaria, ed altri – fanno faticare parecchio per essere letti. Quelli alfonsiani invece, tolta l’una o l’altra espressione, sembrano usciti appena ieri dalla penna dell’autore, nonostante gli oltre duecento anni che ci separano dalla stesura di essi.

Altre note distintive di sant’Alfonso scrittore e predicatore: è eminentemente pastorale, teso soltanto alla guida e alla salvezza delle anime; pratico più che teorico: impostava il suo insegnamento sulle situazioni concrete e nell’esperienza personale; popolare, perché attento alle più profonde esigenze del popolo, perché da questo era capito, seguito e amato; perché si adattava al popolo, si faceva parte di esso.

Queste caratteristiche sono alla base dell’enorme successo editoriale ottenuto dai suoi libri. Il redentorista Théodule ReyMermet scrittore ben conosciuto per le sue molte opere e autore di una monumentale biografia del Santo -dichiara che de Liguori «è uno dei grossi successi librari della storia, potendo annoverare fino ai nostri giorni oltre 20.000 edizioni in almeno 70 lingue; Shakespeare, più vecchio di lui di una larga generazione, tradotto è vero in 77 lingue, arriva nel 1961 a10.602 edizioni» (15).

Nel Catalogo dei Libri Italiani dell’Ottocento (CLIO), pubblicato, in 19 volumi, nel 1991, troviamo Alfonso de Liguori al terzo posto per numero di edizioni. Più di lui ne hanno soltanto il librettista Felice Romani (726) e Cicerone (588). Delle opere alfonsiane sono state contate 526 edizioni, 9 più di Dante che occupa il quarto posto.

Diamo in dettaglio il numero delle ristampe, certamente da capogiro, di alcuni suoi libri, veri best-sellers di tutti i tempi. La Theologia moralis ha avuto 9 edizioni durante la vita e 73 dopo la morte dell’autore; l’Homo Apostolicus, sintesi dell’opera precedente, dal Settecento ad oggi ha raggiunto 118 tirature; le Visite al SS. Sacramento hanno avuto 2.020 edizioni; le Glorie di Maria, più di un migliaio; la Pratica di amar Gesù Cristo, 535; l’Apparecchio alla morte, 319; le Regole per ben vivere, il Regolamento di vita di un cristiano e 1′ Uniformità alla volontà di Dio hanno raggiunto oltre 500 edizioni ciascuno.

Per annunciare il Vangelo, utilizzò anche la sua eccezionale indole e la sua preparazione artistica e musicale, disegnando immagini devote che distribuiva ai fedeli, e componendo canzoncine spirituali. 

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Note

(1)   Antonio M. Tannoia, Della vita ed istituto del Venerabile Servo di Dio Alfonso M. de Liguori, Napoli 1798, ristampa anastatica, Valsele Tipografica, Materdomini 1982, I, pp. 4-5.
(2) O. Gregorio – D. Capone – A. Freda – V. Toglia, Sant’Alfonso de Liguori, Contributi bio-bibliografici, Brescia 1940, p. 113.P. L. Rispoli, Vita del Beato Alfonso Maria de Liguori, Napoli 1834, p. 16.
(3) P. L. Rispoli, Vita del Beato Alfonso Maria de Liguori, Napoli 1834, p. 16.
(4)Tannoia, op. cit., I, p. 35.
(5) A. Tannoia, op. cit., I, p. 40.
(6) A. Tannoia, op. cit., I, p. 62.
(7) Cfr. De Meulemester, Origines de la Congrégation du Très Saint-Rédempteur, Lovanio 1953, I, p. 24, nota 24. Ma vedere anche l’insieme delle pp. 22-26.
(8) B. D’Orazio, La Ven.le Madre Sr. Maria Celeste Crostarosa – Autobiografia, Roma 1965, p. 186.
(9) A. Tannoia, op. cit., III, p. 17.
(10) D. Rops, op. cit., V-2, pp. 357-358.
(11) S. Raponi, Rivista di Vita Spirituale, maggio-agosto 1984, p. 388.
(12) S. Raponi, op. cit., p. 388.
(13) S. Alfonso, Lettere, Roma 18873II, p. 281.
(14) A. Tannoia, op. cit., I, p. 36.
(15) T. Rey-Mermet, Il Santo del Secolo dei Lumi, p. 785.

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