S.Alfonso: Dalla vita e per la vita


Essere Chiesa con gli abbandonati 1/5
1. Dalla vita e per la vita
La benignità pastorale di S.Alfonso si è confrontata con la vita vissuta.

  1. In continua ricerca
  2. Convertito dall’esperienza missionaria con gli abbandonati
  3. Gli appelli della storia

 In continua ricerca
L’immagine dello studioso di morale è spesso disegnata con tratti che non ispirano simpatia. Siamo disposti a riconoscergli ‑ anche se non senza fatica ‑ il compito di mantenere desta la nostra coscienza nella ricerca del bene e quindi di denunziare con franchezza il male e i compromessi. Non riusciamo però a perdonargli il distacco dalla complessità della vita spesso presente nelle sue prese di posizione. Avvertiamo anzi che nella sicurezza delle sue affermazioni può nascondersi l’atteggiamento fortemente contestato dal Cristo: «Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11,46).
Fortunatamente non tutti i moralisti si muovono in queste prospettive. Ci sono anche di quelli che sono sinceramente preoccupati di non perdere mai il contatto con la concretezza della vita e sviluppano la loro proposta in attento ascolto di quanto emerge dall’esperienza e dalla ricerca scientifica. 

Sant’Alfonso si è mantenuto sempre fedele a questa impostazione. Nel gennaio 1762, ad esempio, scrive al suo editore: « La morale è un caos che non finisce mai. lo all’incontro sempre leggo, e sempre trovo cose nuove. Certe cose le passo, ma certe cose più importanti di nuovo le noto» (1).
Due anni più tardi raccomanda ai sacerdoti della sua diocesi di Sant’Agata dei Goti: «Avvertano i sacerdoti, da noi approvati per le confessioni che non basta loro, a non trovarsi rei per tale officio avanti Dio, l’approvazione avuta dal vescovo; ma vi bisogna l’approvazione di Gesù Cristo giudice, che dovrà esaminare in punto di morte se l’hanno bene o male esercitato. Con ciò vogliamo dire che il confessore per ben esercitare il suo officio, non deve lasciare lo studio della Morale. Questa scienza non è così facile, come alcuni la credono: ella è molto difficile, ed è molto vasta per ragione delle innumerabili circostanze che possono occorrere in ogni caso di coscienza, e perciò collo studiare sempre s’imparano cose nuove… Ond’è che, se il confessore lascia di rivedere i libri, facilmente si dimenticherà col tempo anche di quelle cose che prima già sapea. Pertanto raccomandiamo a tutti di non lasciare lo studio della Morale, specialmente quando occorrono casi di maggior conseguenza, come di contratti o di obblighi di restituzione, d’impedimenti di matrimonio e simili. Allora, oltre il riaprire i libri, bisogna non rare volte prendere anche consiglio da uomini dotti» (2). 

La prima edizione della Theologia moralis, la maggiore opera morale di sant’ Alfonso, vede la luce nel 1748 come commento e integrazione (Adnotationes) della Medulla theologiae moralis del gesuita Hermann Busenbaum (16091668). Gli è costata, come egli stesso scrive, «anni e anni di fatiga, specialmente in questo ultimo ci ho faticato quasi 5 anni continui, otto, nove e dieci ore il giorno, che quando ci penso mi fa orrore» (3). Si succederanno altre otto edizioni: 1753‑55, 1757, 1760, 1763, 1767, 1772, 1779, 1785. Per tutte ‑ tranne l’ultima, che lo vede già gravemente segnato dalla malattia ‑ Alfonso si impegna in un intenso lavoro di precisazione, approfondimento, sviluppo (4). Non esita a correggere alcune affermazioni richiamandovi esplicitamente l’attenzione del lettore: «Riconoscendomi uomo, scrive nel proemio della II edizione, ho anche riformato alcune opinioni… Né in questo ho provato rossore».

Medulla theologiae moralis, Facili ac perspicua metodologiche resolvens casus conscientiae (1645) di Hermann Busembaum (1600-1668), gesuita teologo, è nato in Westfalia (Germania).Questo suo celebre libro ha ottenuto una vasta popolarità e passato attraverso più di 200 edizioni prima del 1776. (foto dal sito web liveauctioneers.com)

La Theologia moralis è accompagnata da altre pubblicazioni. Alcune hanno un carattere apologetico: Dissertazioni, Risposte e Apologie, con cui si difende dagli avversari rigoristi (particolarmente G. V Patuzzi, 1700‑1769) e precisa ulteriormente il suo pensiero. Altre opere si preoccupano invece di rendere accessibile la sua proposta morale anche a quei sacerdoti che non hanno molta familiarità con il latino: Pratica del confessore per ben esercitare il suo ministero (1755); Istruzione e pratica per li confessori (1757); IL Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna (1764). A queste opere strettamente di teologia morale occorre aggiungere quelle meno tecniche miranti a formare direttamente nel popolo la coscienza cristiana a cominciare dalla Pratica di amar Gesù Cristo (1768). 

E’ chiara in tutte queste opere una costante ricerca della verità attraverso un instancabile lavoro di confronto e di verifica, che viene così sintetizzato nella Risposta ad un anonimo del 1756: «Nelle questioni più dubbie non ho sparambiata [risparmiata] fatica in osservare gli autori così moderni come antichi, così della benigna come della rigida sentenza… Specialmente poi mi sono affaticato ad osservare in fonte tutti i testi canonici che s’appartenevano alle materie trattate. Quando ho ritrovato qualche passo di santo Padre spettante alle cose controverse, ho procurato di notarlo colle proprie parole, con farvi tutta la riflessione e darvi tutto quel peso che meritavasi la sua autorità. Inoltre sono stato attento a trascrivere ed avvalermi delle dottrine di S. Tommaso, cercando di osservarle tutte nelle proprie fonti. Di più nelle controversie più intrigate, non avendo potuto risolvere i miei dubbi colla lettura degli autori, ho procurato di consigliarmi con diversi uomini dotti». (5).
Questo ampio lavoro di confronto vien fatto con profonda lealtà verso la verità: «Nella scelta delle opinioni, continua Alfonso, ho cercato sempre di preferire la ragione all’autorità; e prima di dare il mio giudizio ho procurato di mettermi in una totale indifferenza e di spogliarmi da ogni passione che mi avesse potuto trasportare a difendere qualche opinione non abbastanza soda» (6).
Respinge perciò con decisione lo “scrupolo” che gli si vorrebbe insinuare: « In quanto poi allo scrupolo che vuole impormi il mio venerato censore per le cose che ho scritte, gli dico ch’io ben temo del conto che ho da dare a Dio della mia mala vita menata nel secolo (a Gesù principalmente e poi a Maria, madre e avvocata mia appresso Gesù Cristo, stanno le mie speranze del perdono), ma in quanto poi alle dottrine che ho registrate nella mia opera non ho fondamento di temere di doverne dar conto a Dio» (7). 

Tutto questo perché Alfonso in tutta la sua ricerca morale non ha altro intento che la gloria di Dio e la salvezza dei fratelli. Questa chiarezza di coscienza lo ha vaccinato da tutto ciò che potrebbe velare la dedizione piena alla verità. Non si lascia condizionare dalle mode teologiche e pastorali, tanto meno da preoccupazioni di fama, di successo, di carriera: «Nel caso ch’io mi rivocassi dalla mia sentenza, acquisterei con ciò facilmente il nome di santo di tutti i signori probabilioristi, e potrei anche sperare d’essere annoverato nel numero de’ letterati alla moda» (8). Quello che conta è restare lealmente in ricerca della verità. 

S. Alfonso, che aveva cominciato lo studio della Morale con la Medulla di Busembaum, sviluppò il suo sistema nella sua Theologia Moralis che vide ben nove edizioni lui vivente.

Convertito dall’esperienza missionaria con gli abbandonati
Nella sua biografia di sant’Alfonso (Il Santo del Secolo dei Lumi) THÉODULE REY‑MERMET dà un titolo emblematico al capitolo relativo alla formazione teologica: «Gli anni di seminario: formazione e… deformazione?» (9). La « deformazione» riguardava soprattutto la teologia morale.
In realtà nella prima parte del Settecento, come altrove, anche a Napoli dominavano tendenze e autori di ispirazione rigorista o probabiliorista. Veniva sottolineata la priorità della legge sulla libertà, sostenendo che nei casi dubbi l’ultima parola spettasse sempre e necessariamente alla prima. Di conseguenza nella pastorale dei sacramenti, soprattutto della confessione e dell’eucaristia, ci si ispirava a una severità che finiva con l’allontanare i fedeli dagli stessi sacramenti. 

Alfonso nel 1764 non esiterà ad affermare nella Risposta apologetica ad una lettera d’un religioso circa l’uso dell’opinione egualmente probabile: «sappia.V. R. ch’io nel fare gli studi ecclesiastici ebbi per miei direttori a principio maestri tutti seguaci della rigida sentenza; ed il primo libro di morale che mi posero in mano fu il Genetti, capo de’ probabilioristi; e per molto tempo io fui acerrimo difensore del probabiliorismo» (10).
Quando però gli impegni pastorali lo misero a contatto con la vita concreta, soprattutto con quella dei più abbandonati, le certezze della prima formazione cominciarono ben presto a vacillare: «Ma poi, considerando le ragioni della sentenza contraria, e specialmente quella sulla quale ho foridata la mia dissertazione, cioè che la legge incerta non può indurre un’obbligazione certa, mutai sentimento» (11). 

Non fu un cammino agevole. Fu anzi pagato caramente, anche per la forte delicatezza di coscienza che Alfonso aveva maturato già sulle ginocchia materne. Fu sostenuto però da consiglieri e direttori dal polso sicuro, che l’aiutarono a procedere oltre. Del resto l’ambiente intorno non facilitava il passaggio alla benignità pastorale. L’amara constatazione a cui sarà costretto nel 1765 è significativa: «Oggidì pochi autori stampano contro il moderno rigido sistema: ma che s’ha da fare? Così corre la moda». E aggiungeva: «Per non esser inquietati dalle ingiurie e da’ rimproveri che van fatti per uso contro i seguaci del moderato probabilismo, si guardano di dichiararsi tali» (12).
La lealtà verso la verità e il contatto pastorale soprattutto nelle missioni popolari non gli permettevano di restare su posizioni rigoriste. In una dissertazione del 1749 si legge: « In seguito, nel corso del lavoro missionario, abbiamo scoperto che la sentenza benigna è comunemente sostenuta da numerosissimi uomini di grande onestà e sapienza… ne abbiamo perciò ponderato accuratamente le ragioni e ci siamo accorti che la sentenza rigida non solo ha pochi patroni e seguaci ‑ e questi dediti forse più alle speculazioni che all’ascolto delle confessioni ‑, ma è anche poco probabile, se si vagliano i principi, e per di più circondata da ogni parte da difficoltà, angustie e pericoli. Al contrario abbiamo scoperto che la sentenza benigna è accettata comunemente, è molto più probabile dell’opposta, anzi è probabilissima e, secondo alcuni, non senza un fondamento molto grave, moralmente certa» (13).
Nella Theologia moralis aggiunge con una punta di ironia nei riguardi degli autori di ispirazione rigorista: «Come potevano convincermi vedendo che essi generalmente si sforzano di appoggiare le loro sentenze più con invettive e derisioni che con la forza delle ragioni? Come avrei potuto aderire in tutto a coloro che il più delle volte proclamano le loro opinioni come più vere e più conformi al Vangelo solo perché sono più rigide e sovente si fanno scherno di quelle contrarie, come false e opposte al vangelo, solo perché favorevoli alla libertà?» (14). 

Il punto di arrivo del cammino di conversione è una proposta morale centrata nella esigente benignità del Cristo: una proposta morale cioè che si impegna ad attualizzare, nelle diverse situazioni della vita, la parola del Cristo alla donna sorpresa in adulterio: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Può perciò aprire il cuore di ogni uomo a quella fiducia filiale che fa tendere lealmente alla santità, in generosa risposta all’altra decisa affermazione del Cristo: «Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» e «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Mt 5,48 e Le 6,36).
Le certezze di fondo sono così sintetizzate dallo stesso Alfonso nella Teologia moralis: innanzitutto è «certo, o da ritenere come certo… che agli uomini non si devono imporre cose sotto colpa grave, a meno che non lo suggerisca una evidente ragione» (15), cioè una legge incerta non può indurre un obbligo certo; inoltre «considerando la presente fragilità della condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro avviare le anime per la via più stretta, mentre vediamo che la chiesa ha più volte condannato sia l’eccessiva libertà che l’eccessivo rigore» (16). Riportando queste affermazioni, per sottolineare, che Alfonso è stato « il rinnovatore della morale», Giovanni Paolo II aggiunge che si tratta di « mirabili parole» (17).
Nella prospettiva alfonsiana viene così sottolineato che la proposta morale è autenticamente cristiana solo se riesce a portare salvificamente il bene nella «fragilità» storica dell’uomo, aprendola alla pienezza che Dio ha progettato in Cristo: se «continua» e attualizza l’incarnarsi misericordioso del Redentore. 

L'opera morale di S. Alfonso nasce dal suo contatto pastorale con la gente, soprattutto con i poveri (tela di Lomuscio - Foto Vasari nella Raccolta Marrazzo).

Gli appelli della storia
La maniera nella quale sant’Alfonso matura la sua conversione alla benignità evangelica si ripercuoterà su tutta la sua proposta morale: a livello di contenuti e di metodo. Riesce a dare il giusto valore alla storia e alla stessa quotidianità in rapporto alla verità morale.
In realtà la proposta morale è sempre alla ricerca del difficile equilibrio tra l’assolutezza dei valori e le possibilità della vita quotidiana. Alcuni optano per i primi in maniera tale da dimenticare le seconde, rischiando non solo di rendere incomprensibili gli stessi valori ma di precludere anche il cammino verso di essi; altri si lasciano talmente assorbire dalla concretezza e dalla complessità della vita da legittimare ogni cosa, rimandando l’imperatività dei valori à un domani sempre lontano.
Benché difficile, occorre trovare un equilibrio costruttivo tra queste due istanze. Solo così è possibile evitare da una parte formalismi e rigorismi e d’altra parte relativismi e lassismi di ogni tipo. La vita e la storia non possono essere ridotte solo a «luogo» dell’applicazione della norma morale: sono cariche di appelli che la coscienza di ognuno è chiamata a riconoscere e accogliere.
Se questo vale per ogni proposta morale, in quella cristiana si arricchisce di ulteriore profondità e urgenza. Non possiamo dimenticare infatti che il nostro Dio si è incarnato nella storia: è una Presenza che ci interpella chiamandoci ad essere collaboratori con lui della salvezza. 

Convertito alla benignità dall’esperienza pastorale, sant’Alfonso insiste sempre sulla necessità di misurarsi con i fatti, senza alcuno pregiudizio. Non si tratta di legittimazione semplicistica dei fatti: non è possibile che il «così si fa», anche nel caso che è la maggioranza ad agire in quella maniera, diventi automaticamente «è bene fare così». Si tratta invece di arricchire di concretezza tutta la proposta morale.
Nel 1747, nel suo primo scritto teologico‑morale, Alfonso si esprimeva in questi termini nei riguardi delle «bestemmie ai morti» considerate da alcuni come peccati mortali: «Le bestemmie son tali, o perché suonano così appresso tutti, o perché così le intende chi le proferisce. Domandate pure a chi bestemmia i morti, se ha inteso maledir le anime sante del purgatorio o del cielo, vi dirà tosto di no. Dunque se cosi la sente chi dice e chi ascolta, la bestemmia dov’è?… Seguendosi l’opinione contraria, si vengono a facilitare le colpe; perché la gente minuta, preoccupata da tal sentimento, crede, come ho trovato, dopo che hanno inteso esser peccato mortale, che sia peccato mortale bestemmiare ai morti, agli animali, alle piogge e venti ecc. I confessori devono impedire i peccati. Seguendo il mio sentimento, se ne impediscono moltissimi; perché essendo sì usuale tal bestemmia, oh quanto si moltiplicherebbero le colpe col pubblicar che sia colpa grave! Dunque, perché non si deve fare e tenere ciò che è si conforme alla ragione?» (18). 

Questo ascolto sincero della vita è una componente fondamentale della «praticità» alla quale sant’Alfonso resterà sempre fedele. Essa non significa certamente superficialità o dimenticanza dei principi, ma capacità prudenziale di ascolto e di discernimento. Scrive nel 1765 difendendo il suo «uso moderato» dell’opinione probabile: «Benché la legge sia certa, non però le circostanze diverse che occorrono fanno che la legge ora obblighi ed ora non obblighi; giacché i precetti sono bensì immutabili, ma alle volte non comandano sotto questa o quella circostanza. Quindi… non vale il dire che le leggi son certe, perché, mutandosi le circostanze de’ casi, si rendono dubbie, e come dubbie non obbligano» (19).
Non si stancherà perciò di ricordare ai confessori: «Chi niega che tutti i casi si hanno da risolvere coi principi? Ma qui sta la difficoltà: in applicare ai casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni che son dall’una o dall’altra parte; e questo appunto è quel che han fatto i moralisti: han procurato di chiarire con quali principi debbano risolversi molti casi particolari» (20). 

Questa “praticità” alfonsiana può apparire a prima vista lontana nel tempo. Lo è per quello che riguarda il linguaggio casistico di cui si serve. Non lo è invece per ciò che riguarda l’intuizione di fondo, che è profondamente evangelica: non è possibile ridurre la nostra preoccupazione per il bene solo a ciò che è detto dalle norme generali, che pure sono importanti; occorre invece che ci lasciamo costantemente interpellare dai bisogni che affiorano nelle diverse situazioni. Come il samaritano della parabola evangelica: a differenza del sacerdote e del levita, che procedettero oltre con indifferenza quando si imbatterono nell’uomo ferito e derubato dai briganti, egli «passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui» (Le 8,33‑34).
Il Concilio Vaticano II ha affermato con forza: « E’ dovere permanente della chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (21).
E’ un’istanza che riguarda non solo la comunità cristiana in quanto tale, ma ogni battezzato: ascoltare, discernere evangelicamente, lasciarsi interpellare dalla storia sono elementi indispensabili della vita morale. La «praticità» alfonsiana spinge a porsi con decisione e fiducia in questa prospettiva. 

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(1) Lettere, III, Roma 1890, p.144‑145.
(2) Ivi, p. 591‑592.
(3) Spicilegium Historicum 23 (1975) p. 353.
(4) Per una visione dettagliata di questo cammino di precisazione attraverso le diverse edizioni, Cf M. VIDAL, Op. cit., p. 69‑106.
(5) Apologie e confutazioni, 1, Monza 1831, p. 77.
(6) Ivi, p. 77‑78.
(7) Ivi, p. 76‑77.
(8) Risposta apologetica ad una lettera d’un religioso circa l’uso dell’opinione egualmente probabile, in Apologie e confutazioni, 1, p. 115. Nel 1764 esprimeva ancora il suo stupore nei riguardi del successo dei rigoristi: « Io non so capire come debba solamente farsi scrupolo d’insegnar le sentenze troppo benigne e non anche le troppo rigorose che illaqueano le coscienze de’ Penitenti e, come parla S. Antonino, aedificant ad gehennam, cioè per lo smoderato rigore son causa della dannazione di molti, che, credendosi obbligati a seguire tali sentenze, non seguendole poi, miseramente si perdono» (Dichiarazione del sistema che tiene l’autore intorno alla regola delle azioni morali, n. 52, in Apologie e confutazioni, II, Monza 1831, p. 65).
(9) Il Santo del Secolo dei Lumi. Alfonso de Liguori (1696‑1787), Roma 1983, p. 165.
(10) Apologie e confutazioni, I, Monza 1831, p. 111‑112. Il testo a cui fa riferimento è la Theologia moralis seu resolutio casuum conscientiae iuxta Sacrae Scripturae, Canonum et Sanctorum Patrum mentem dell’avignonese F. GENET (1640‑1703) edito a Grenoble nel 1676.
(11) Apologie e confutazioni…, p. 112.
(12) Dell’uso moderato dell’opinione probabile, cap. VI, n. 16, Monza 1831, p. 315.
(13) Dissertatio scholastico‑moralis pro usu moderato opinionis prababilis in concursu probabilioris, in Dissertationes quatuor, Monza 1832, p. 77‑78.
(14) Lib. III, tract. V, cap. II, dub. I, n. 547, ed. GAUDÉ, II, Roma 1907, p. 53.
(15) Ivi.
(16) Ivi.
(17)  Spiritus Domini…, p. 1367‑1368.
(18) Lettere, III, Roma 1890, p. 2.
(19) Dell’uso moderato dell’opinione probabile…, cap. III, n. 89, p. 199.
(20) Pratica del confessore per bene esercitare il suo ministero, cap. I, n. 18, in Opere complete, IX, Torino 1861, p.790.
(21) Gaudium et spes, n. 4.

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