S. Alfonso nominato Vescovo 250 anni fa_2

250 anni fa S. Alfonso venne nominato Vescovo: come, quando e perché – Parte seconda.
Prezioso contributo storico del prof. P. Giuseppe Orlandi

250 anni fa S. Alfonso venne nominato Vescovo: come, quando e perché – Parte seconda

Il redentorista P. Giuseppe Orlandi, profondo conoscitore e storico dell'Istituto, ha condiviso con i confratelli le presenti note storiche sulle circostanze che accompagnarono l'evento della nomina di S. Alfonso vescovo nel 1762 - Pubblicate sul Bollettino ScalaNews, vengono offerte ai visitatori del sito.

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A Roma e oltre da pellegrino
Durante il soggiorno a Roma uscì solo per visitare i luoghi sacri, o per rispondere agli inviti di personaggi che non poteva rifiutare. Visitò la Biblioteca Vaticana, e naturalmente S. Pietro e le altre Basiliche.
Non sappiamo se percorrendo via Merulana per recarsi da S. Maria Maggiore a S. Giovanni il suo sguardo si posò, a sinistra, su Villa Caserta, futura sede della Casa Generalizia della Congregazione. Siamo invece sicuri che non immaginava che, accanto ad essa, meno di un secolo dopo sarebbe sorta una chiesa a lui intitolata.
Dato che il papa era partito per Civitavecchia il giorno stesso del suo arrivo a Roma, Alfonso ne approfittò per recarsi a Loreto – il viaggio durava quattro giorni – a visitarvi il famoso santuario che conserva la casa in cui il Verbo incarnato aveva trascorso quasi tutta la vita. Vi rimase tre giorni, prima di rientrare a Roma, dove giunse l’8 maggio, quando i cannoni di Castel S. Angelo salutavano il ritorno in città del papa.

Lo stato d’animo di Alfonso durante il soggiorno romano è ben descritto nella lettera inviata a suo fratello Ercole: «Mi sembrano mille anni scappare di Roma, e liberarmi da tante cerimonie, benché mi trattano con finezze immense… qui le mance mangiano vive le genti; grandi cerimonie, e grandi denari».

Gli esami affrontati
Nel frattempo, la macchina burocratica pontificia non restava inattiva. Per avere la prova (o, per meglio dire, la conferma) dell’idoneità del candidato alla diocesi di Sant’Agata, negli ultimi giorni di maggio la Dataria Apostolica istruì l’apposito processo, durante il quale furono esaminati tre testimoni. Tra loro il p. Villani, che dichiarò che Alfonso “era personal dotata di illibati costumi, e di dolce conversazione e fama”, e che la sua nomina a vescovo sarebbe stata di particolare vantaggio alla diocesi, e “di spirituale giovamento di quelle anime”.

Il primo impegno che lo attendeva era l’esame alla presenza del papa (coram Sanctissimo), fissato per venerdì 11 giugno (i giorni fissati per tale esame erano il martedì e il venerdì). Era rimasto famoso l’esame per l’episcopato sostenuto da s. Francesco di Sales, nominato vescovo coadiutore di Ginevra, e trionfalmente da lui superato il 16 maggio 1625 alla presenza di Clemente VIII e davanti ad otto cardinali, tra cui Federico Borromeo, Cesare Baronio e Roberto Bellarmino.
In vista del proprio esame, Alfonso fece visita agli esaminatori: il card. Antonio Andrea Galli, penitenziere maggiore; il p. Michelangelo Monsagrati, abate di S. Pietro in Vincoli; e il p. Agostino Ricchini, maestro dei Sacri Palazzi. Venne trattato da tutti con grande rispetto, e, richiesto su quale materia desiderava essere interrogato, lasciò a loro la scelta. Ma, cortesemente obbligato, al cardinale indicò il trattato De mutuo; e all’abate, quello De legibus.
Il p. Ricchini, che ben sapeva quanto rincrescevagli il vescovado, scelse lui l’argomento dell’esame, dicendo: «Voglio darvi un punto di vostro piacere, ed è Se sia lecito desiderare l’episcopato (An liceat appetere episcopatum)». Tannoia scrive che, il giorno prima dell’esame, Alfonso fu «sorpreso da tal emicrania, che non davagli pace», attribuendone la causa al «peso, che era per addossarseli». A noi piace invece pensare che, come ogni comune mortale alla vigilia di una prova impegnativa, anche lui soffrisse una crisi di ansia.
Bisogna riconoscere che la procedura dell’esame non era tale da rassicurare il candidato. La sala destinata era quella in cui si radunava il concistoro segreto. Ai lati del trono pontificio, in appositi banchi, sedevano i cardinali – che erano giunti accompagnati dai gentiluomini della loro anticamete (detti «cappe nere») e dal caudatario – mentre gli altri esaminatori prendevano posto, in piedi, alle loro spalle. A destra del trono in cui sedeva il papa – vestito di sottana, mozzetta e rocchetto) vi era, su uno sgabello, il campanello con il quale egli avrebbe dato il segno della conclusione della prova.

Giunta l’ora dell’inizio, il prelato incaricato (Segretario dell’Esame) introduceva l’esaminando, che si inginocchiava su un cuscino posto di fronte al trono pontificio, e vi restava per tutta la durata dell’esame. Le domande e le risposte erano fatte in latino. Agli esaminatori veniva raccomandato di non fare sfoggio di intelligenza e di erudizione, evitando di infierire sul promovendo, comprensibilmente trepidante davanti al Capo della Chiesa, e ai cardinali e consultori che gli facevano corona.
Al termine dell’esame, se l’esito era stato positivo, il papa esprimeva la sua approvazione al candidato, che da quel momento assumeva il titolo di «vescovo eletto» della diocesi assegnatagli.
Non erano mancati casi in cui l’esaminando si era smarrito davanti a un sì imponente consesso. Allora il papa, se era a corrente della sua idoneità e dottrina, lo dispensava dal proseguire l’esame. Era anche successo che il papa (per esempio Benedetto XIV) concedesse una prova d’appello al malcapitato, esaminandolo privatamente. In qualche raro caso, il candidato incapace di rispondere agli esaminatori non era stato promosso alla dignità vescovile.

Il nuovo vescovo
Il 14 giugno ebbe luogo il concistoro, nel quale Alfonso venne preconizzato vescovo di Sant’Agata de’ Goti. In tale occasione indossò per la prima volta l’abito prelatizio. Con la professio fidei, la consegna della bolla (concessa, per espresso volere del papa, gratuitamente) e l’ordinazione episcopale si concludeva l’iter stabilito. L’ordinazione gli venne conferita la domenica seguente, 20 giugno, nella basilica di S. Maria sopra Minerva, dal card. Ferdinando Maria Rossi, prefetto della S. Congregazione del Concilio, assistito da mons. Domenico Giordani, arcivescovo titolare di Nicomedia e vicegerente, e da mons. Innocenzo Gorgoni, arcivescovo titolare di Emesa.
Si ignora il perché della scelta di quel luogo sacro. Ma forse non è privo di significato il fatto che nel transetto della basilica si erge la statua del Redentore (di Michelangelo), e che sull’altare della cappella in cui avvenne la consacrazione vescovile si trova un dipinto del Salvatore (attribuito al Perugino).

L’indomani, Alfonso si recò a celebrare la messa nella cameretta di s. Luigi, presso la chiesa gesuitica di S. Ignazio. Poi andò a congedarsi dal papa. Prima di partire da Roma, da qualcuno gli era stato suggerito di procurarsi qualche privilegio. Per esempio, quello di potere tenere in testa lo zucchetto anche durante la celebrazione della messa, naturalmente dietro pagamento di una piccola tassa. Ma egli rispose di non capire perché avrebbe dovuto pagare, per poter mancare di rispetto a Gesù Cristo
Il pomeriggio dello stesso giorno, 21 giugno, Alfonso partì per Napoli, dove giunse il giorno 25. Nel viaggio di ritorno avrebbe desiderato incontrare a San Germano due nipoti benedettini di Montecassino, i padri Alessandro e Andrea Lanza, che non si presentarono all’appuntamento. Il mancato incontro, attribuito dai biografi del Santo a un semplice malinteso, aveva probabilmente una motivazione diversa, legata alla ruggine esistente tra le due famiglie.

Una responsabilità pesante?
Durante il soggiorno romano, Alfonso era stato ricevuto varie volte in udienza dal papa. In una di queste, il p. Villani aveva informato il pontefice del comune desiderio dei confratelli che Alfonso continuasse a ricoprire la carica di rettore maggiore della Congregazione, con la facoltà di scegliersi un vicario. Il permesso venne concesso, dopo un iniziale rifiuto.
Il passo compiuto dal p. Villani – non del tutto disinteressato, essendo prevedibile la sua nomina a vicario – non era affatto approvato da tutti i confratelli, specialmente dai giovani, come apparve chiaro in occasione del capitolo generale del 1764. Si trattò comunque di una decisione non immune da conseguenze negative per la vita della Congregazione.
La riluttanza di Alfonso ad accettare l’episcopato era motivata dalla sua convinzione di essere inadeguato alla grave responsabilità che comportava. Il suo altissimo concetto della missione episcopale – che vedeva realizzata in maniera mirabile, e quasi inarrivabile, in modelli come s. Carlo Borromeo e s. Francesco di Sales – lo induceva a ritenersi inadeguato anche al peso di una diocesi, tutto sommato, di dimensioni modeste sia per estensione territoriale (la sua lunghezza massima era di una ventina di km), che per numero di abitanti.
Gli attuali vescovi redentoristi sorrideranno, al pensiero che la diocesi di Sant’Agata de’ Goti contava 27.500 fedeli, ripartiti in 34 parrocchie, e 401 sacerdoti (benché la «legge di proporzione» ne fissasse il numero a uno ogni cento fedeli), ai quali andavano aggiunti quelli dei 13 conventi della diocesi.
È però vero che alla quantità degli ecclesiastici non corrispondeva sempre la qualità. Accanto ai molti elementi esemplari ve ne erano altri poco inclini all’osservanza delle norme stabilite dai sacri canoni. Tanto che il palazzo vescovile disponeva di carceri riservate agli ecclesiastici discoli. Non molto sicure, per la verità, dato che una volta uno di loro fuggì, portando con sé – come souvenir e come ultimo sberleffo al vescovo – il grosso catenaccio della porta della cella.

La diocesi lo amò molto
S. Alfonso fece il suo ingresso solenne in diocesi l’11 luglio 1762. Ricordando i suggerimenti rivolti a suo tempo ai vescovi, non dovette tardare a rendersi conto delle difficoltà che ne comportava l’applicazione pratica. All’impegno pastorale egli affiancò quello culturale, che gli consentì – tra il 1762 e il 1775 – di comporre e pubblicare più di 50 opere.

Col passar degli anni le sue condizioni fisiche andarono sempre più deteriorandosi, tanto che ben quattro volte ricevette il viatico e due volte l’unzione degli infermi. Le dimissioni, presentate cinque volte, vennero finalmente accolte il 5 maggio 1775 da Pio VI, da poco elevato al soglio pontificio. Quando la notizia si diffuse in diocesi, fu unanime il rammarico espresso dalle autorità civili ed ecclesiastiche, dal clero, dai religiosi, dalle religiose – specialmente dalle Monache del SS. Redentore, che egli aveva chiamato in diocesi – e dal popolo.

Erano soprattutto i poveri a dolersi della partenza di colui dal quale avevano sempre ricevuto conforto ed aiuto. Tanto che d’inverno erano soliti portare i loro bambini nella sala del palazzo vescovile, sicuri che vi sarebbero stati riscaldati, nutriti e custoditi. Alfonso non si dimenticò di loro anche dopo il rientro a Pagani, destinandogli parte della pensione che percepiva come vescovo emerito.

A un certo punto, nel 1784, pensò che la carrozza – che gli era servita per visitare la diocesi e che ora usava per le sempre più rare uscite di casa – costituisse ormai una spesa superflua, e perciò la vendette.
Vendette anche i cavalli, scrivendo al confratello che se ne era assunto l’incarico: «Per questi cavalli che mando, io voglio restare senza scrupolo. Manifestate che uno patisce nelle mascelle, e non può masticare la paglia e la biada; l’altro, cioè il più vecchio, patisce di male di luna (licantropia), e da quando in quando si butta a terra. Ha giovato ad alzarlo, afferrarlo per l’orecchio. Spiegate tutto questo, perché io voglio restar senza scrupolo». I due animali furono venduti per una somma equivalente al valore di tre quintali di grano (o al salario mensile di un muratore). Commento ironico di Tannoia: «Così finì in Monsignor Liguori lo sfarzo della sua ricca e superba carrozza».

Giuseppe Orlandi, C.Ss.R.

Estratto da Scalanews Bollettino CSSR n. 78 – Leggi l’originale

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Diapositive dal fumetto di Henriette Munière e J.Heinzmann 1982; elaborazione di Salvatore Brugnano – Vedi tutto