Giuseppe De Luca su S. Alfonso 1

Giuseppe De Luca su S. Alfonso /1

Don Giuseppe De Luca – Nato a Sasso di Castalda (PZ) il 15 settembre 1898, sacerdote, fondatore e direttore dell’Edizioni di Storia e Letteratura e di altre collane editoriali, collaboratore di quotidiani e riviste, si è occupato di problemi letterari diversi, con particolare interesse per quelli religiosi e per i movimenti spirituali letterari italiani e stranieri. Tra i suoi scritti ricordiamo: Raccolta di aforismi e poesie di S. Giovanni della Croce, Storia Sacra (in collaborazione con P. Bargellini), Scritti su richiesta, Commenti al Vangelo festivo, S. Alfonso mio maestro di vita cristiana.  È morto a  Roma il 19 marzo 1962. – Viene qui riportato un interessante brano:  – Piano… con Sant’Alfonso!

 Piano… con Sant’Alfonso!
Non perché sono in vena di malinconia (eppure l’autunno n’è più carico che di frutta), ma proprio perché è così, ogni qual volta io comunque mi riaccosto a S. Alfonso, sento risvegliarmisi, nel fondo dell’anima, tutta la dolcezza attenta della mia infanzia.
S’andava, a mattina alta, quando ancora l’alba non era che un presentimento dei galli, s’andava su in silenzio alla chiesa di Santa Maria, con nonna; e lì l’arciprete, innanzi alla Messa, leggeva al poco lume di una candela le meditazioni di S. Alfonso. Le donne, dentro un loro panno nero, inginoc­chiate per terra nel mezzo della chiesa; gli uomini, ai lati del presbiterio, e noi bambini ora presso gli uni ora presso l’altre, svegli ma come s’è svegli la notte; e tutti s’ascoltava quelle parole, né faceva nulla ai più vecchi che già le sapessero a mente. Non mi ricordo distrazioni, in quel tempo. Le mie distrazioni sono nate nella scuola.
Un’altra volta, poi, nel pomeriggio, ma già presso l’Avemaria, la campana della medesima chiesa tornava ad alternare sull’umile paese quei suoi rintocchi, ch’io ricordo e, quando ci ritorno, riconosco da lontano con una immensa tenerezza; e daccapo si formava, su, verso la chiesa, il rado corteo di buone mamme, nonne, di bambini, di vecchi. Gli uomini no, restavano in campagna sino all’ultima luce, nel lavoro. Era, immancabilmente, tutti i giorni dell’anno, la visita al SS. Sacramento: e anche allora, si pregava con parole di S. Alfonso, si cantavano sue canzoncine.
Le sere, poi, a letto, nonna mi faceva ripetere sempre, prima ancora che sapessi leggere, una lunga preghiera: anch’essa, una preghiera di S. Alfonso. E nel suono delle campane medesime, che ci avevano svegliato nel mattino, e ora annunziavano una, due, tre ore di notte, si pigliava sonno sugli alti pagliericci di frasca.

Campane, campane: vi ho risentite, poi, quando non ero più un bimbo; vi ho sentito, che ero già prete accompagnare all’eterna pace col vostro aereo e vicino pianto quella mia povera nonna e altri volti amati della mia infanzia: noi s’era alla finestra, con gli occhi gonfi, a seguire sempre più distante il corteo nella campagna, e voi, ancora voi, eravate tra il nostro lagrimare.
E meno mi dispiace la morte, se penso che voi accompagnerete anche me, come i miei, nel mio piccolo nido di terra vicino a loro, dove dovrò aspettare Cristo. Non sia, non sarà mai che io debba morire in città ed esservi sepolto: voglio morire nel mio paese. Quelle campane suonino, come per tutti, la mia agonia; e intanto mi si legga S. Alfonso. Con precisione: l’Apparecchio alla morte.

Lo so, lo so. Ho studiato poi, anch’io, un mondo di cose, m’è piaciuta la storia, la filologia, la critica, l’arte. Non ho negato, alla mia intelligenza, nessuna curiosità che potesse renderla meno indegna della verità. Conosco, e più mi propongo di conoscere, uomini, città e libri.
Tuttavia, non m’è passata mai per l’anima una ombra sola di disdegno e d’alterigia per quella mia orfana infanzia, consolata dagli affetti, e ignara d’altro fuorché di S. Alfonso. E anch’io conosco tutti gli spregi inflitti alla memoria del Santo e ai suoi libri: conosco anch’io le superbie segrete, i fastidi insormontabili, le repugnanze pertinaci, che tengono dietro allo studio soverchio, come nausee all’indigestione. Pur tuttavia, guai a toccarmi il Santo!
Perché? ma perché non è più soltanto un autore, sia pure come Platone e Virgilio, Dante e Pascal, Petrarca e Shakespeare. Non è più un autore, per molti di noi che leggiamole sue parole, senza esservi tratti né da voracità intellettuale né da libidine letteraria.
Prendiamo S. Alfonso, noi che l’amiamo, a quel modo che si piglia in campagna una boccata d’aria, e si mangia il pane a tavola o un frutto sull’albero, e si beve due dita di vino da un amico o l’acqua a una fonte. È divenuto libro dell’anima, un suo libro: nostro interprete, come a muti; nostra guida, come a ciechi… In talune circostanze, egli viene a sorreggerci le braccia, nel punto che la nostra preghiera spontanea e personale declina e langue: allora continuiamo a pregare sulle sue parole, come l’organo subentra nei silenzi del rito.

S. Alfonso non è soltanto un autore, e chi non lo vede altrimenti che in questa luce, non lo vede per intero. Ne ignora la più bella parte. Non avverte che egli è stato il padre più vero e amato di tante anime, nel Mezzogiorno d’Italia particolarmente.
Ma è anche un autore. La sua fama, popolarissima sin dagl’inizi e nello stesso tempo alta e inconcussa anche nei ceti dotti e nel giudizio della Chiesa docente, la sua fama ebbe attacchi d’ogni sorta, e non ha ancora e, siamo certi, n’avrà: è divenuto luogo comune prendersela con i suoi idiotismi napoletani, con le sue citazioni non esatte, con le sue ripetizioni. Trovi della gente che sa appena formare un periodo, e già disprezza S. Alfonso, quando lo si dà loro a leggere.

Ecco: che ci possono essere, che ci siano delle mende letterarie nella sua opera, non si vuol negare: ma quel che si deve negare è che siano di quella natura e di quella mole che s’è preteso sin qui. Il Santo, fra l’altro, ha scritto una grammatica italiana.
Si devono a lui delle canzoncine, le quali, nel quadro della poesia popolare religiosa, dal secolo XVII a oggi, sono senza dubbio le migliori: alcune, anzi, sono dei piccoli capolavori. Egli ha seguito la cultura, non soltanto teologica, del suo tempo con una prontezza e una larghezza, che noi si stenta a immaginare, quando si riflette alle cure che pesavano su lui di moralista, di missionario, di vescovo, di fondatore e rettore d’una rigorosa Congregazione religiosa.
Tra le sue pagine si ritroveranno accenni tutt’altro che superficiali, non so, al Muratori e al Metastasio, per dire due estremi.
Il suo epistolario, già oggi (e meglio quando sarà pubblicato per intero) ci darà un’altra faccia del Settecento Napoletano e Italiano, e ce lo darà in termini d’una vivacità e d’una forza tutt’altro che comuni.
I suoi rapporti con editori, con autori, con autorità non sono meno belli, seppure meno noti, delle sue lettere di direzione o di amministrazione religiosa. Perché, contro la stupida leggenda invalsa, egli fu uomo di spirito, e molte sue uscite non sono soltanto lepide, ma raggiungono finezze e intenzioni degne degli spiriti più alti.

Naturalmente, non faceva professione di tutte queste cose: cioè non faceva il letterato “en titre”: altro segno che era un uomo superiore. Santo, e santo di una rapinosa potenza di mortificazione, non si baloccava troppo, quando era con gli uomini, e non si baloccava per nulla quand’era tra se e sé o con Dio. L’aspetto doloroso ed eroico di questo avvocato napoletano che di punto in bianco lascia tutto, e balza, attraverso poche decine d’anni, all’altezza d’uno dei più grandi missionari che si abbiano nella storia d’Italia; del più grande moralista della Chiesa; di consolatore religioso di infinite anime, che non poteva raggiungere con la parola; di fondatore d’Ordine e di Santo; l’aspetto doloro e glorioso di questa vita molti fan le viste d’ignorarlo; ma c’è, ed è grandissimo, e solo attende chi abbia il coraggio e le forze di dircelo in un buon libro.

Per mio conto, non ho bisogno d’altri libri. L’antica Vita del Tannoia, qualche particolare studio dei suoi figli, e poi le Opere mi bastano. Bastano infatti, due occhi di fronte, e ce n’è e n’avanza .
… Pagine una più bella dell’altra, mio caro lettore. Limpide, piane, ardenti pagine, che sono tutta una preghiera e una preghiera intessuta ‑ come nel parlare dei Padri ‑ di espressi o taciti brani di Sacra Scrittura; tutte gremite di fatti e di voci dei più cari e dei più alti Santi.
Pagine senza presunzioni di grandi pensieri, senza impennature di vedute nuove, senza leccature di stile e lenocini di grazie letterarie; e tuttavia vive e calde come un dolce focolare, mormoranti e suadenti come una pura vena di acqua preziosa.
Pagine nelle quali il Santo non si distacca un attimo dai piedi sanguinosi di Cristo, e ripete al suo Amore crocifisso, senza mai venir meno, le sue opere d’amore e di dedizione totale.

Il secolo XVIII è il secolo che ha voluto dare a tutti gli uomini la cultura, diffondendo fuori di particolari ceti, quelli che chiamavano “i lumi” della civiltà. Il Santo combattè con opere memorabili gli errori del suo secolo: e tuttavia fu uomo del suo tempo. Si può dire che in gran parte la sua opera ascetica non ha fatto altro che diffondere fra tutte le anime, in uno stile facile e quasi senza spaventarle, i più alti sentimenti della pietà cristiana, la devozione più illimitata e generosa.
(da L’Avvenire d’Italia, 19 settembre 1934)

Don Giuseppe De Luca è stato il fondatore dell’Edizioni di Storia e Letteratura e di altre collane editoriali. "S. Alfonso mio maestro di vita cristiana" è il riconoscente libro scritto su S. Alfonso.

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Riportato in
Ermelindo Masone e Alfonso Amarante
S.Alfonso de Liguori e la sua opera
Testimonianze bibliografiche
Valsele Tipografica 1987, pp.260-263.