Oscar Luigi Scalfaro e S. Alfonso

 Oscar Luigi Scalfaro e S. Alfonso
1918 – 2012

Oscar Luigi Scalfaro è morto nel sonno nella notte tra il 28 e 29 gennaio a Roma, all’età di 93 anni. Nato a Novara, politico ed ex magistrato, è diventato il nono Capo di Stato, dal ’92 al ’99, in uno dei periodi più difficili della storia italiana, che va dalle stragi di Mafia a Tangentopoli.
I Redentoristi lo ricordano con stima ed affetto, soprattutto per il bellissimo discorso commemorativo su S. Alfonso tenuto a Napoli, al Maschio Angioino, il 12 dicembre 1987 in occasione del bicentenario della morte del Santo.

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Sant’Alfonso, ieri e oggi  – Il 12 dicembre 1987, nell’ambito delle celebrazioni del secondo centenario della morte di s. Alfonso de Liguori (1696-1787), l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro ha tenuto il discorso ufficiale a Napoli, al Maschio Angioino, davanti a un folto uditorio e alle massime autorità civili e religiose della Regione Campania.
L’Oratore non ha lasciato niente di scritto, essendosi affidato alla sua eccezionale memoria, alle sue brillanti doti umane e culturali e al fascino indiscutibile della sua viva parola.

Video = Tre brevi passaggi del discorso del 12/12/1987

1. Il messaggio spirituale di S. Alfonso [flashvideo file=video/09SPIR.flv /]

2. Il messaggio dommatico di S. Alfonso  [flashvideo file=video/08DOGMA.flv /]

3. Una preghiera a S. Alfonso  [flashvideo file=video/11MSG.flv /]

Il discorso, quindi, raccolto su nastri magnetici di registratori amatoriali, si è in qualche modo diffuso tra i devoti del Santo e gli estimatori dell’Oratore; tuttavia insistente è stata la richiesta da parte di molti di vederlo scritto, di poterlo leggere, specie dopo che il Periodico S. Alfonso, rivista bimestrale della Basilica S. Alfonso in Pagani, ne ha pubblicato una sintesi in alcuni numeri del 1988.
Il discorso è stato ricostruito con pazienza e gli si è dato una forma redazionale per una migliore leggibilità..

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 Sant’Alfonso, ieri e oggi
Discorso dell’Onorevole Oscar Luigi Scalfaro
tenuto a Napoli, al Maschio Angioino
il 12 dicembre 1987. 

1. Introduzione

C’è una bellissima frase di S. Alfonso che serve come inizio:
I sermoni dei santi si fanno per imitarsi; quando non sono all’apostolica non se ne ricava frutto e si ci perde il tempo.
Quindi, un bel discorso sui santi ha bisogno di due condizioni: uno di essere fatto e udito al fine di tentare l’imitazione, di avere un esempio dinanzi, l’altro al fine apostolico, al fine di fare un apostolato, presentare una verità che vorrà trovare persone che l’accolgano, conquistare.
Se non è così, si ci perde il tempo: è chiaro! E’ chiaro per me, è chiaro per voi. E sì, è chiaro perché è assolutamente inutile che i Padri Redentoristi abbiano pensato di celebrare questo secondo centenario, se noi, con l’aiuto dello Spirito di Dio, uscendo di qui, non abbiamo cercato di trarre qualche argomento, qualche esempio, qualche fatto per dire: “E’ a questo punto io bisogna che mi sforzi, con la grazia di Dio, di fare questo meglio e quest’altro che non ho fatto mai, incominciare a farlo.
Se questo non c’è, si ci perde il tempo.

Poi, c’è un pezzo che riguarda proprio l’oratore di turno, perché in un certo scritto S. Alfonso se la prende con un padre cappuccino, un certo P. Bernardo M. Giacchi, il quale era un oratore di una potenza incredibile (probabilmente, dove ci bastava un aggettivo, ne metteva 35…):
Che non sia per piangere in purgatorio la sua vanità (attenzione, perché la motivazione è scultore) per avere impastata di frasche la Parola di Dio.
Io mi son fermato un po’ a pensarci, perché questo impastato mi interessa fortemente: perché, non ha detto soltanto “per avere adornato di frasche”. No. Le frasche ce l’ha messe così impastate dentro…
Questo serve adesso per Oscar Luigi Scalfaro. Però questo serve sempre, ed è uno dei temi incredibilmente affascinanti: altro che di oggi! Vedremo.
Ecco, se il sottoscritto dovesse compiere un atto di ardimento (capita nella vita) e cercare di dare un titolo di sintesi, per così dire, alla vita di S. Alfonso M. de Liguori, finirebbe per pensare a un titolo così Di S. Alfonso M. de Liguori, o della verità e della carità.

2. L’avvocato

Sulla vita dirò poche cose; le dico perché è tradizione di non tralasciarle.
Nasce a Marianella di Napoli in una famiglia nobile il 27 settembre 1696, muore a Pagani il 1 agosto 1787 (200 anni). Si laurea a 16 anni.
Vi è una Lettera Pastorale dell’allora Patriarca di Venezia, poi Giovanni Paolo I, con quel suo scrivere spigliato che si legge e si ascolta con un piacere immenso e che parla da dietro le righe, dove egli dice: in fondo era un maggiorato sul piano delle capacità umane.
Si laurea a 16 anni in legge; anzi in utroque jure, come si diceva una volta, quando si parlava dialetto (latino).
E diventa subito un avvocato di grandissimo successo: e fa l’avvocato per una decina di anni, tanto che nel 1723 è avvocato del Duca Orsini di Gravina, il quale ha una causa contro il Granduca di Toscana per il feudo di Amatrice. Forse, può esserci stato un errore di valutazione su una clausola contrattuale. Una cosa è certa: che la spada dell’imperatore d’Austria fu posta sul piatto della bilancia che riguardava il Granduca e il Duca fu sconfitto.

Aveva iniziato la sua esperienza forense scrivendo un codice di morale professionale. Se ci sono avvocati presenti, sappiano che lo leggo non con spirito politico di magistrato stagionato, ma con tutta la devozione, dico, con grande oggettività per una professione così elevata e delicata (ma ogni professione ha la sua morale, o dovrebbe averla!):

Non bisogna accettare mai cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza e per il decoro.
Ci avevano insegnato, una volta: io posso difendere sempre, a condizione che la mia difesa non faccia cadere la responsabilità su un altro che è innocente. Qui c’è un pezzo in più, perché non guarda tanto il dato oggettivo, qui guarda la coscienza di colui che si muove anche se quell’episodio, quel fatto di danno all’innocente non ci fosse, “sono perniciose per la coscienza e per il decoro”.

Non si deve difendere una causa con mezzi illeciti ed ingiusti.
Oh! questo è un tema estensibile, perché uno può difendere una causa di diritti sul piano nazionale o internazionale o difendere una causa sul piano legislativo… il che vuol dire che se anche la causa fosse giusta, non si può con mezzi illeciti ed ingiusti.

Non si deve aggravare il cliente (c’è un termine… affascinante) di spese indoverose.

Poi si arriva ad una impostazione di natura cristiana:
L’avvocato deve implorare da Dio l’aiuto nella difesa, perché Dio è il primo protettore della giustizia.
E’ una bellissima definizione di  Dio data da un avvocato: “è il primo protettore della giustizia”. E con quella sentenza, la giustizia è ferita, perché è ferita la verità.

E c’è la famosissima frase, che poi lui riprende in una delle poesie delle Canzoncine: Mondo, ti ho conosciuto! Cioè, questo episodio fa determinare da parte di Alfonso una valutazione molto più  ampia di quella del singolo fatto.  E’ una valutazione che mette queste due grandi sponde: da una parte la verità e la verità è Dio, dall’altra il mondo, cioè tutto ciò che nega Dio,  che toglie  spazio a Dio, che vuole fare a meno, come dottrina o come fatto al termine, di Dio e sceglie dalla verità.
Alfonso si trova al bivio: il vero momento. Infatti, anche in una bellissima elevazione alla Vergine, che leggerò al termine, (è commovente, a me è parsa sinfonica) lui parla ancora della sua conversione, anche se ebbe una educazione senza dubbio religiosa, ma questo è il momento della scelta, questo è il momento drammatico della vita, che non è “Proseguo a fare l’avvocato o no?” No. ma è  estremamente più profondo: “Scelgo per la verità?”.
Credo che qui ci sia un punto sul quale sia bene  fare una piccola meditazione, che la verità non tollera una scelta parziale, che la verità non tollera compromesso, non lo tollera, non c’è nulla da fare e che colui che, conoscendola, crede di prenderne una parte, speri in qualche modo salvarsi, certamente ha scelto la negazione della verità. E’ la scelta con assenza di spina dorsale, perché, in fondo, colui che dice no alla verità, forse una tal qual corazza, di spina dorsale  ce l’ha, sceglie la verità e si avvicina al vangelo.

3. Il sacerdote e la scelta definitiva della verità

Ma volendo fare una scelta totalitaria, sceglie per il sacerdozio: completo, totale, dono di sé a Dio. Perché nella vita di Alfonso c’è questa specie di permanente vocazione.
In fondo un avvocato che parte da quella impostazione è un avvocato che vive il tormento della verità, la ricerca della  verità, il bisogno della verità. Vi è in lui questa vocazione, questa passione: sente lui il fascino della verità. Credo che sia il più bel fascino che si possa vivere nella vita. Si  sente chiamato per cercarla, per testimoniarla, per difenderla, per farne partecipi gli altri, soprattutto quelli che non la conoscono senza loro colpa.
L’avvocato e Alfonso si identificano con colui che ama la verità; e ama la verità perché è impegnato per far trionfare la giustizia. Non esiste giustizia turbando la  verità, non esiste. E su questo i tempi di allora e di oggi sono nello stesso senso: i principi non subiscono rughe sul volto. Per questo è formidabile il fatto che si trova colpito sul suo terreno.
Un giovane che ha scelto questa ricerca di verità nella vita, con la toga sulle spalle, sceglie ad un certo momento la sconfitta. Non c’è nulla  di peggio. A  me è  capitato. Io non so se è capitato, ma penso che capiti quasi sempre nella vita, quando si è toccati sulla cosa che ci impegna e nella quale crediamo o diciamo fermamente di  credere.
Allora la scottatura, l’umiliazione è marcata. Sconfitto su ciò  che crede, perché vi è un atto di violenza; un chissà come ammantato atto di  violenza dell’imperatore (chissà quali guanti ha piumato di violenza) che impone un tipo di verità diversa da quella che è; quindi impone un tipo di menzogna che ferisce a morte la verità.

Vi è un secondo passo tristissimo, che può  esser passo di tutti i tempi (lo dico da magistrato) ed è che vi è un giudice che si adegua alla spada che l’imperatore ha posto  sul piatto della bilancia contro la verità… Nulla di più nefasto per  una civiltà.
Può  parere che la  frase Mondo, ti ho conosciuto e l’abbandono della carriera forense sia un gettare la spugna: può dare questa impressione. Invece non è un gettare la spugna. La sua nuova scelta è una scelta di  verità assoluta, totale: l’intera vita di donazione a Colui che è la  verità: “Ego sum veritas”: questa commovente presentazione del Cristo.
E qui un tocco di  pennello delicato nel momento della scelta: la presenza della Madonna, questo  bellissimo amore alla Madre di Dio e Madre nostra; lui più volte la indica Madre mia.
In questo sì che lui dice a Dio, offre lo spadino di cavaliere alla Madonna. E’un tocco di semplicità delicata, ma è commovente.
Soprattutto, mi  son fermato a pensare a una cosa: ed è che non vi so dire (perché non ho fatto in tempo ad avere un colloquio con l’interessato), ma che, se Domineddio sarà così largo con me, gli chiederò quando lo incontrerò: perché, che abbia offerto lo spadino è bellissimo, ma che cosa il cuore di Alfonso ha detto al cuore di questa Mamma è dolcissimo mistero  di amore.

4. Un sì di amore a una chiamata d’amore

Momento essenziale questo, dunque, nella vita di Alfonso: il sì  a Dio, questo sì  di amore in risposta ad una chiamata di amore. Questo sì ci interessa direttamente, ci interessa, perché da questo sì è derivata una ricchezza per tutti.
Ma dobbiamo anche dire, che se lui avesse detto “No”, questa stessa ricchezza Dio l’avrebbe fatta uscire da una altra parte. Però, intanto, è uscita di lì.
Ma ciò che conta in questo momento, è un attimo di confronto, mio e di ciascuno di voi. Perché, la chiamata di amore, Dio ce l’ha per tutti, e ciascuno con le proprie caratteristiche. Ed è chiamata di amore quella al sacerdozio; è chiamata di amore quella alla consacrazione a Dio, ed è chiamata di amore quella per farsi una famiglia, per un amore benedetto, comandato e chiamato santo. E’ chiamata di amore che richiede una risposta di amore.
Una cosa è certa: che insieme a questa grande chiamata di amore, ci sono in numero indefinito delle chiamate di amore quotidiane.
La grande tentazione per noi credenti non è l’odio, no! La grande tentazione e il grande pericolo per noi credenti è il poco amore. La grande tentazione per noi è quella di sentire che siamo chiamati per un sorriso, per una parola, per un compatimento, per una presenza, per una spinta a trovare un punto di intesa e non abbiamo desiderio di ascoltare.

Già  avendo (parlo per me) timpani estremamente duri, tante di queste chiamate della giornata si perdono, ma se ne perdono anche di quelle che passano i timpani duri e giungono al cuore, ma il cuore non risponde. E se vi è  crisi, oggi nel mondo, la crisi  unica che vi è nel mondo è  una sola: è crisi di amore. E se in coloro che credono in questa immane legge di amore (lo vedremo fra poco) sottraggono ogni giorno un loro apporto, quali danno il sì a Dio; ma il sì a Dio ha sempre una parte che è un no a sé. Fino a quando non c’è il no a Dio, il no di Alfonso è stato un no totale, stavo per dire caparbio, cocciuto, persistente.

Questa lunghissima vita, senza un momento di cedimento: non c’è una tregua. Mi è venuto in mente, quando Frate Francesco al momento del suo tramonto, pur così giovane, avendo chiesto troppo a frate asino, chiede a frate asino, al suo povero corpo invecchiato prima del tempo, perdono per aver chiesto troppo e di più. Ma Alfonso ha chiesto in una vita che è durata circa 91 anni, un no incredibile! che è il rovescio della medaglia di questo sì di amore incantevole, fresco, giovane.

Quante volte ho raccontato una frase che ho inteso una volta da un uomo di eccezione, al quale volli tanto bene, il prof. Ezio Franceschini, per il quale domani a Firenze si inaugura la fondazione posta nella Certosa. Mi ricordo di averlo sentito una volta parlare a dei religiosi e delle religiose, dicendo: I  voti, cioè il sì a Dio, non sono dei fiori finti offerti una volta per sempre sull’altare di Dio, ma sono dei fiori freschi ai quali occorre cambiar l’acqua ogni giorno. Non ho mai inteso, in tutto il diritto ecclesiastico e canonico studiato, una definizione di una ricchezza e di una  bellezza e di una luminosità di questa potenza.
Ecco allora l’impostazione essenziale, invincibile (stavo per dire: impostazione fatale: è brutto usare questo termine, parlando di credenti e di santi): il sì  a Dio è la condizione logica ed è la causa per il sì all’uomo e soprattutto all’uomo che ha particolarmente bisogno, soprattutto all’uomo che ha un infrenabile bisogno di Dio. Il sì a Dio diventa sì all’uomo; ma attenzione! il no a Dio diventa no all’uomo.
Questo schema, terribilmente arido, passano i millenni e non ha una turbativa e una incertezza. Da sempre. E per sempre.

5. Il vescovo

Così inizia a scorrere la sua vita di sacerdote; è ordinato nel 1726, poi è vescovo per 13 anni fino al 1775.
Mi piacerebbe, mi piace (vi chiedo perdono d’un mio gusto personale) di applicare a lui la splendida presentazione manzoniana del cardinal Federigo: “La sua vita è come un ruscello, che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va d’impeto a gettarsi nel fiume”. E ancora: “Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto, cominiciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa”.

La sequela della verità lo porta ai poveri, quindi, agli abbandonati, ai lontani; ai poveri nei beni, ai poveri nella cultura, ai poveri nella legge morale, ai poveri nella religione. E’ proprio la sequela della verità che porta su questa strada.
Come ministro di verità, come ministro di Dio, che è verità, vide il suo sacerdozio nella verità. E’ predicatore di verità in modo semplice. Semplice nella sostanza: l’amore di Dio, Gesù Crocifisso, la Madonna. Semplice nella forma, una forma limpida, chiara, una forma comprensibile, accessibile a tutti. Perché la parola è fatta per farsi capire. Tante volte non sembra: anche questo è tema di allora e di oggi. E’ tema che vale dappertutto. La parola è fatta per farsi capire, per allacciare un dialogo. Persino l’ingiuria aggancia una persona e fa che il messaggio giunga alla mente e al cuore della persona.

Vi è una bellissima frase di Nicola Capasso, del mondo della cultura napoletana nei primi decenni del Settecento, dalla battuta arguta, facile e anche incisiva, frecciante: il Santo lo vedeva alle sue prediche e lo abbordò, pensando quale battuta avrebbe potuto raccogliere: “Vengo e vi sento con piacere, perché voi predicate Cristo Crocifisso e non già voi medesimo”.

6. Lo stile della sua attività pastorale
Nella Lettera ad un vescovo modello, Alfonso dice: Il catechismo grande, ossia l’istruzione al popolo, è uno degli esercizi più importanti della missione. Pertanto, il sacerdote che la fa deve essere molto dotto.
Bellissimo questo fatto. Dice: “Ma tu chiedi che uno che parli in modo semplice alla gente analfabeta deve essere molto dotto: “Pertanto il sacerdote che la fa deve essere molto dotto e molto anche sperimentato”.
Questo appunto è appunto il fine delle missioni: la conversione dei peccatori. Poiché nelle missioni essi dalle Istruzioni e dalle prediche vengono illuminati a conoscere la malizia del peccato, l’importanza della loro salute e la bontà di Dio. Così mutansi i loro cuori, si spezzano le funi dei mali abiti e cominciano a vivere da cristiani”.

Ho voluto leggere questo pezzo, perché, al di fuori di qualunque battuta – signori – perderei il mio tempo; al di fuori di qualunque battuta – signori. Questo “cominciano a vivere da  cristiani”, è proprio scritto questa sera per Oscar Luigi Scalfaro, affinché l’ascolti e “cominci a vivere da cristiano”.
Ecco le missioni, la predicazione, il dialogo con la gente, il Cristo crocifisso.

Tutti devono capire: l’uomo ha diritto di  capire, perché la chiamata alla santità è per tutti: “Andate e predicate il vangelo a tutte le genti”. La verità non è per pochi, è per tutti. L’uomo è creato per la verità e quindi per la libertà. L’uomo ha diritto alla verità: “Non sono venuto per i sani, ma per i malati”. Tutti siamo malati.
Quel povero giovane che disse: “Io tutte queste cose le ho già fatte fin dalla mia fanciullezza” e il commento è poi: “Si intristì quando gli fu detto: E allora vendi quello che hai… perché era ricco”.
Ma il punto chiave, in cui questo giovane ha sbagliato tutto, è quando ha detto a Gesù di Nazareth: “Quelle cose lì io le ho già fatte tutte”. Sono solito dire che in quel  momento Gesù si è rivolto alle altre due Persone della Trinità e ha detto: “Avete sentito anche voi: questo ha fatto tutto e noi siamo disoccupati!…”
Non sono venuto per i sani”, perché quelli che dicono di essere sani, lo dicono, lo credono, ma non lo sono. “Sono venuto per i malati…” “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi.”

7. S. Alfonso, fondatore delle Cappelle Serotine e della Congregazione del SS. Redentore.

La grande chiamata dei poveri, dunque, è il momento eroico della vita, dell’avventura di Alfonso. E’ l’elemento qualificante, caratteristico.
Ecco, mi verrebbe da dire questa frase, che è un po’ strana, consentitemela: “S. Alfonso senza la povera gente non c’è, non c’è lui, non c’è la sua santità, non ci sono i suoi scritti, non c’è la sua opera, non c’è la sua vita, perché la verità è la vita dell’uomo, la verità è la forza dell’uomo, la verità è la dignità dell’uomo, la verità è l’uguaglianza degli uomini per gli uomini, la verità è l’unica vera, essenziale civiltà dell’uomo; la verità è la radice della giustizia per l’uomo; la verità è il midollo insostituibile per la pace dell’uomo e per la pace degli uomini. Per la povera gente la verità è la carità insegnata, la verità è la carità vissuta, la carità  scritta, divulgata, applicata a ciascuno secondo le singole necessità in confessionale verità; e misericordia, questa intera vita per le anime…

Su queste basi sono sorte a Napoli le Cappelle Serotine, per essere evangelizzate le persone, e per avere anche fra la gente semplice, gente capace di diventare evangelizzatrice con i più umili, i poveri, i semplici che si preparano a diventare loro persone attive verso gli altri con un linguaggio, una capacità di  comunicativa, essendo dell’ambiente, essendo fra altri pari a loro, ancora maggiore, perché la verità è conquistatrice per sua natura.
Ha scritto il Tannoia:
Accertato Alfonso della volontà di  Dio, si animò e prese coraggio, e, facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della città di Napoli, si offerse menare i suoi giorni dentro  procuoi e tuguri e morire in quelli, attorneato dai villani e dai pastori
e l’8 novembre del 1730 lascia Napoli e va a Scala verso le popolazioni più povere e più abbandonate della campagna.

Se verità e amore sono gli ideali che lo muovono, sono il sospiro, la sete, il bisogno dell’intelletto, del cuore, dell’anima di Alfonso: la povera gente, i pezzenti nei beni, nella vita, nella cultura, nella fede, nella morale, sono lo scopo vero della sua vita, condizionano ogni suo pensare e agire.
Francesco si innamorò di “madonna povertà”, la fece sua, la prese con sé. Alfonso non solo amò i poveri, non solo aiutò i poveri, non solo visse per i poveri e con i poveri, si fece povero, divenne povero e visse come se fosse stato povero da sempre.
Quando ci si racconta del suo abito rattoppato, del suo modo di presentarsi, non è questo il punto, anche questo, è l’ultimo e marginale. Visse questa sua enorme cultura, questa ricchezza di cultura immane da povero e per i poveri; la spezzettò per i poveri.
A me piacerebbe adottare il forte crescendo del canone  della messa a S. Alfonso e alla poverta “per ipsam, cum ipsa et in ipsa”: questa immedesimazione, questa incarnazione della povertà.

C’è un incontro con Maria Celeste Crostarosa, napoletana, visitandina. Ha un marcato influsso su di lui e sulle decisioni e sulle regole che deve dare a coloro che vuole chiamare nel suo progetto di Congregazione.
E il 9 novembre del 1732 i primi 5 compagni. Nasce questa Congregazione che verrà chiamata dei Redentoristi, del SS. Redentore, dove c’è una sintesi di amore a Dio, di amore alla verità, allo studio, alla cultura; di amore ai poveri;  un impasto felicissimo di queste grandi cose.
Disse e scrisse: “Bisogna in ogni modo condividere la condizione dei poveri”, perché lo stare lontani da loro non avrebbe mai permesso di diventare mentalmente e spiritualmente di sentirsi parte delle popolazioni abbandonate.

Per questo, nella presentazione delle Regole al Re e alla S. Sede (non c’era ancora il Concordato!) dice:
L’intento dei sacerdoti del SS. Salvatore è per seguitare l’esempio del nostro comune Salvatore Gesù Cristo, di impiegarsi, principalmente sotto l’obbedienza degli Ordinari dei luoghi, nell’aiutare i paesi di campagna più  destituiti di soccorsi spirituali col distintivo assoluto di dover sempre situare la loro chiesa e casa fuori dell’abitato (vi è questa concezione incredibile) al fine di porgere in tal modo più facilmente il commodo alla povera gente”.
Il tema è tutto qua: rendere persino quello di accorrere a sentire la divina Parola, prendere i sacramenti nelle chiese il meno scomodo possibile: noi sacerdoti veniamo lì da voi! Io, Alfonso, voglio che i miei sacerdoti vengano nella campagna, perché voi non abbiate da far lunghe strade (allora poi era particolarmente così per poter avere la possibilità di udire una parola, la Parola; di accostarvi ai sacramenti). Per servirvi siamo vicini a voi.
E quali sono gli effetti?
C’è una frase scritta dal Tannoia, che è il “dominus” degli scrittori della vita di Alfonso:
Tanti e tanti, ancorché scellerati e peccatori, che non lasciarono di frequentarlo, non solo presero in orrore il peccato, ma divennero anime di orazione non ordinaria e sommamente impegnate in amare Gesù Cristo.

Vi è una pagina dove c’è una elencazione di persone che è di una tal vitalità che sembra una pagina di cronaca scritta ieri, dove si dice: Tizio (attenzione) e così Caio che era così, (e poi c’è un elenco enorme di persone) notoriamente mutarono vita.
“E’ un grande errore, poi, quello che dicono taluni – scrive nella Pratica di amare Gesù Cristo – Dio non vuole tutti santi (certo però che questa tesi era ardita: perché quelli che dicevano che Dio non voleva tutti santi, allora forse sapevano anche quelli che erano già esclusi, e quindi non si impegnavano neppure, è vero?). Dio non vuole tutti santi. No! dice S. Paolo: haec est Voluntas Dei: sanctificatio vestra! E Dio vuole tutti santi! e ognuno nello stato suo.

8. S. Alfonso, maestro della morale cattolica e ministro di grazia e di perdono.

Ecco, mi consentono ancora un tratto, non facile. Da questa immensa umana esperienza, da questa immensa comprensione dell’uomo, da questa umana esperienza discende la sua Teologia Morale, e per questa, soprattutto, è stato proclamato Dottore della Chiesa.
La legge di Dio a misura dell’uomo. La legge di Dio è  stata data per salvare l’uomo, non per opprimerlo, non per rendergli la vita difficile. La legge di Dio ha bisogno della coscienza della persona. Non c’è soltanto la legge.
Ascoltiamo la sua parola. Nelle opere morali, in quel volume unico di Istruzione e Pratica per Confessori, che io ho sfogliato qua e là, avendo il brivido di qual’è la dottrina, la conoscenza e lo studio, che, per altro lo indica:
* Prima di scrivere queste cose, ho letto tutti, ho  interpellato coloro che ne sanno” (Avvertenze sul  trattato della coscienza).
* La prima regola del bene operare è la legge divina, alla quale, poi, deve informarsi la coscienza, quindi è che la regola rimota, ossia materiale delle nostre operazioni è la Legge divina; la regola prossima e la formale è la coscienza, come insegna S. Tommaso. Perciò la coscienza si definisce; “Dictamen rationis quo judicamus quid hic et nunc agendum vel fugiendum”; lui stesso traduce: “Un dettame della ragione col quale noi giudichiamo  ciò che nei casi occorrenti abbiamo praticamente da fare o da evitare”.

E poi, c’è l’elencazione degli status della coscienza: coscienza retta, erronea, perplessa, scrupolosa, dubbia e probabile.
Era il momento in cui il discorso era in discussione: fra tesi di severità, di rigidità  e di lassismo: era piuttosto vivace.

La Lettera Apostolica che il Papa attuale ha scritto in occasione di questo centenario al P. Generale richiama taluni brani. Ne cito solo qualche brevissimo tratto:
* Siccome dall’assenza, ascoltandosi le confessioni, ruina le anime, così loro è di gran danno la rigidezza. Io riprovo certi rigori non secondo la coscienza, che sono in distruzione e non in edificazione. Coi peccatori ci vuole carità  e dolcezza. Questo fu il carattere di Gesù  Cristo. E noi, se vogliamo portare anime a Dio e salvarle, Gesù Cristo (e non Giansenio) dobbiamo imitare, che è il capo di tutti i missionari. Benché la sentenza rigida sembri per sé alquanto più sicura (certo, scende come una mannaia!) in verità spesso è più  sicura la sentenza benigna, perché la rigida determina maggior pericolo di peccare formalmente, mentre la benigna determina maggior pericolo di peccare solo materialmente.
Da questo pericolo non siamo tenuti di star lontano, dopo che abbiamo fatto il possibile di trovare la verità e non l’abbiamo trovata!. In questo caso, l’ignoranza, essendo invincibile, è anche non colpevole.

E ancora, nella Lettera Apostolica:
* Essendo certo, da ritenere come certo che agli uomini non si devono imporre cose sotto colpa grave, a meno che non lo suggerisca una evidente ragione, considerando la presente fragilità della condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro avviare le anime per la via più stretta, mentre vediamo che la Chiesa ha condannato tanto il lassismo quanto il rigorismo.

E dove scrive dell’uso moderato dell’opinione probabile (nel 1765):
* La Legge è posteriore alla libertà, da Dio donata all’uomo. Avendo l’uomo il possesso certo della sua libertà, non è obbligato a stimarsene spogliato da una legge incerta.

E il cardinal Luciani in quella sua Pastorale, scritta nel centenario della proclamazione a Dottore della Chiesa, dice: “Posso lasciare la legge tutte le volte che contro di essa milita una probabilità vera, grave, solida, anche se l’obbligo di osservare la legge è più probabile”.

9. S. Alfonso maestro di vita cristiana fondata sulla legge dell’amore.

E prima di giungere in porto, passo dove il respiro si allarga. Ecco il cuore del problema della salvezza: la legge dell’amore. “Altri pongono la perfezione nell’austerità, altri nella limosina, altri nell’orazione, altri nella frequenza dei sacramenti. Io, per me, non conosco altra perfezione che quella di amare Dio con tutto il cuore, poiché tutte le altre virtù, senza l’amore, non sono che una massa di pietre.
(Avete mai conosciuto qualche persona dotata di tali pesanti virtù  senza carita? per cui vi è venuta voglia di dire: Datemene uno che abbia di meno, che abbia qualche vizio, ma che abbia almeno una ricchezza di capacità umana?)
E poi, nelle Opere Ascetiche, presenta i mezzi per conservarsi in grazia di Dio. Questi, certamente valevano allora e valgono oggi: fuga dalle occasioni, orazione mentale, frequenza dei sacramenti, eucaristia, visita al Santissimo e ad un’immagine di Maria ogni giorno.

Tutto è finalizzato alla pratica dei mezzi per acquistare l’amore a Gesù Cristo:
* Gesù Cristo deve essere tutto il nostro amore. Egli se lo merita”.
Su questa impostazione dell’amore a Dio si pone un interrogativo: Ma che cosa vuol dire amare Dio? E come si manifesta l’amore a Dio?
Chi mi ama – è scritto nel  vangelo – osserva i miei comandamenti. – Chi fa la volontà  del Padre mio… Quante volte?

* Signore, io voglio tutto quello che volete voi – scrive S. Alfonso – Tutta la santità consiste nell’amare Dio e l’amare Dio consiste nell’adempiere la sua volontà”.
Attenzione, qui sta la nostra vita! Qui sta la nostra vita!

E poi, nella Breve Pratica per la perfezione:
* Bisogna amarLo con tutto il cuore, desiderando risolutamente, di giungere alla maggior perfezione per piacere a Dio.
Quando io ho letto questo “di amarLo con tutto il cuore”, mi è tornata alla mente una di quelle chiacchierate (chiedo scusa se uso questo termine per dei discorsi del Pontefice) che in quel brevissimo tratto di vita – poco più di  un mese – fece Giovanni Paolo I in quella trilogia, che è stata pubblicata anche, dove parlò  di atto di fede, di speranza e di carità; e quando parlò di atto di carità, si fermò proprio su quello che noi dovremmo recitare ogni giorno, dicendo: “Ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa”.
E basterebbe che ci fermassimo qualche momento, soprattutto, come dice S. Alfonso, di fronte al Crocifisso, che è l’espressione più viva di quanto ci ha amati il Signore, e pensassimo che cosa vuol dire: ti amo con tutto il cuore. Tutto!
Tutto” non vuol dire un cuore vuoto, senza capacità, volti, sorrisi,sguardi, amore. L’importante è che siano volti, sguardi e sorrisi che non respingano la presenza di Dio, ma che coesistano. “Sopra ogni cosa” “Sopra ogni cosa!” C’è da meditare sulla professione, sulla carriera, sulla ricchezza, su un’infinità di cose.

La Lettera Apostolica richiama questa frase, che è essenziale.
In sede strettamente dogmatica si deve dire che Alfonso elaborò una dottrina della grazia imperniata sulla preghiera: come si ottiene questo amore di Dio? Come si vive la volontà di Dio? Come si attua la preghiera? La quale restituirà alle anime il respiro della fiducia e l’ottimismo della salvezza. Il Vangelo scrive: “Bisogna pregare sempre, senza stancarsi”. Sembra un termine umano, di comprensione umana di Cristo.
Orazione mentale la chiama il Santo: non c’è luce senza orazione mentale. Si cammina all’oscuro e camminando all’oscuro non si vedono i pericoli, non si pigliano i mezzi, non si prega Dio di aiutarci e così ci perdiamo”.
Questo dialogo silenzioso, che ha queste espressioni:
* Prendete il costume di parlare a Dio da solo a solo, familiarmente, con confidenza e amore, come a un vostro amico, il più caro che avete e che più vi ama.
Ed ecco, chiudendo, (e vi chiedo scusa): Tutto ciò che ha scritto S. Alfonso aveva una forza, perché prima tutto ciò lui lo ha vissuto, e lo ha vissuto perché lo ha amato, e poiché lo ha amato, lo ha pagato giorno per giorno.
Per questo è vivo e parla e trascina. Ricordate la frase scultorea di Paolo VI: Il mondo più che di maestri, ha bisogno di testimoni.

La spiritualità  di S. Alfonso è una spiritualità di popolo – dice la Lettera Apostolica – “Tutti sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato”.
E’ una chiamata che torna stasera su ciascuno di noi: la santità consiste nell’amore di Dio, che trova la sua perfezione nell’unifornità  alla Volontà di Dio, attraverso una vita sacramentale intensa e la preghiera, confessione, eucaristia,  e con la Madonna mediatrice, corredentrice, madre e regina.

10. S. Alfonso cavaliere e cantore delle glorie di Maria.

Dunque, verità  e amore, abbiamo detto all’inizio e lo  diciamo al termine. Cristo, crocifisso per amore, Maria, madre di misericordia.
S. Alfonso, questo formidabile portatore di pace, fiducia e ottimismo, ho letto poc’anzi (Beati i portati di pace: saranno chiamati figli di Dio – ha scritto Matteo!)
Questa presenza della Vergine ha un momento che mi ha particolarmente commosso, che mi tocca e che pongo nel tirar le somme.
Nella prefazione alle Glorie di Maria, così ha scritto:
* A voi mi rivolgo, mia dolcissima Signora e Madre mia Maria. Voi bem sapete che, dopo Gesù, in voi ho posto tutta la speranza della mia salute eterna, poiché tutto il mio bene, la conversione, la mia vocazione a lasciare il mondo e quante altre grazie ho ricevuto da Dio, tutte le riconosco donatemi per mezzo vostro. Voi ben sapete che io, per vedervi amata da tutti, come voi meritate e per rendervi ancora qualche segno di gratitudine a tanti benefici che mi avete fatto, ho cercato di predicarvi dappertutto, in pubblico e in privato, con insinuare a tutti la vostra dolce e salutevole devozione”.

Vorrei dire così: “S. Alfonso, abbi pazienza di ciò che ho detto di te stasera. Ma ascolta: insegnalo anche a me. Dammi questo amore a Dio, alla sua Volontà. Dammi l’amore a Gesù, e a Gesù crocifisso per me, l’amore a Maria, Madre di Dio e madre mia.
Allora diventa in questo Natale che si avvicina sintesi armoniosa il suo canto:
Tu scendi dalle stelle e vieni in questa grotta al freddo e al gelo.

Signori,
e vieni in questa grotta!
Dipende da noi che si riduca il freddo e il gelo.
Certo, S. Alfonso ha fatto l’ impossibile per aumentare il tepore e il caldo.

Vi è un altro canto che dice così:
Fermarono i cieli la loro armonia, cantando Maria la nanna a Gesù.
E come S. Alfonso allora, anch’io dirò: “Madre di Dio e dell’uomo, Madre mia dolcissima, ricca di grazia, di bellezza, di amore. Potessi un giorno anch’io ripetere che ho parlato di te a tutti e sempre.
E ho parlato di te, perché ti ho amato come ti amò Alfonso, perché ti ho portato nel cuore, perché il mio povero cuore è riempito di te, o Madre di Dio e dell’uomo, Madre mia dolcissima, ricca di grazia, di bellezza e di amore.

Lomuscio G. A., - S. Alfonso e la sua opera (foto Raccolta Marrazzo).