La Praticadi amare Gesù Cristo

La Pratica di amare Gesù Cristo
Un dono pronto a darlo a chi lo domanda

 In una sua lettera sant’Alfonso scrive: L’amare Gesù Cristo è l’opera più grande che possiamo fare in questa terra: ed è un’opera, un dono che non possiamo averlo da noi: da lui ha da venirci, ed egli è pronto a darlo a chi lo domanda (1774).
Per sant’Alfonso, uno dei più brillanti scrittori ascetici del ‘700, l’amare Gsù Cristo è un’opera, come per san Giovanni la fede è l’opera che Dio vuole dagli uomini (Gv 6,29). La carità è espressa con l’infinito “amare” che reca con sé anche l’idea della fedeltà e della perseveranza. L’amare Gesù Cristo inoltre è considerato un dono particolare perché si ottiene solamente se è domandato nella preghiera. Opera, dono, preghiera: sono i tratti squisitamente alfonsiani che dominano nella sua spiritualità pratica.

Per approfondire questo tema è proficuo leggere un suo libro che porta come titolo: La pratica di amare Gesù Cristo. Da questa espressione come da tante altre si può dire con realismo che tutta l’ascesi alfonsiana è una pratica di amore. Come una rigogliosa radice, l’amare Gesù Cristo si propaga per tutti gli scritti letterari di sant’Alfonso conferendo a tutte le sue riflessioni e alle sue preghiere la linfa necessaria per una crescita fervorosa nella vita cristiana.
La dinamicità e la praticità riscontrate nell’accezione del termine si ripercuotono anche sul destinatario di quest’amore che per sant’Alfonso è Gesù che “viene” nel Natale, “soffre” nella Passione, e “rimane con noi” nell’Eucaristia.

La pratica di amare Gesù Cristo stampata per la prima volta a Napoli nel 1768 ha ricevuto una diffusione immediata ed estesa a tutti i continenti, ed è stata tradotta nelle principali lingue vive con oltre mezzo migliaio di edizioni. L’opera esprime l’ansia del Santo che trasferitosi apostolicamente nelle campagne del Regno di Napoli aveva intrapreso il ruolo di guida del popolo più abbandonato insegnando che esistono ragioni del cuore che non possono essere disattese. La fonte principale di tutte le sue riflessioni e preghiere èla Parola di Dio, in modo particolare il capitolo XIII della I Lettera ai Cristiani di Corinto di san Paolo. Il volumetto potrebbe essere ritenuto un testo di spiritualità biblica sull’amore cristiano arricchito da riferimenti alla Tradizione e sviluppato in 17 capitoli.

I principi enunciati sono pochi e sintetizzabili così: “Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro salvatore” (I, 1); “la carità è quella che unisce e conserva le virtù” (I, 1); “1′ amore è principio di libertà (I, 1)”; “Iddio vuole tutti santi, ed ognuno nello stato suo” (VIII, 10).
I motivi poi sono tutti centrati sulla persona di Gesù Cristo e sull’agire di Dio: “Dio ci ha amati quando non eravamo ancora nel mondo” (I, 2); “Dio ha racchiuso tutto il suo amore nella creazione” (I, 3‑4); Dio è giunto a donarci tutto se stesso (I, 5); “Il Figlio di Dio tutto si è dato a noi e si umilia sino a prendere la forma di servo (I, 6). L’avvicinamento all’uomo da parte di Gesù Cristo è avvenuto nella sua Passione e nell’Eucaristia che diventano i motivi chiave dell’amore del cristiano. Il Santo invita fortemente gli uomini a fermarsi in attenta contemplazione di Gesù Crocifisso per rimanere feriti, infiammati e pazzi d’amore (I, 12‑20). Alla meditazione della Passione di Gesù Cristo sant’Alfonso attribuisce la forza di santificare e d’innamorare un’anima (I, 21).

L’unione più intima che possa darsi tra Dio e l’uomo avviene nella Comunione eucaristica (I, 7): Gesù Cristo “è presente per lasciarsi da noi possedere, masi nasconde per farsi da noi desiderare”. L’unione “non è di mero affetto, ma è vera e reale” (II, 8). Perché possa essere efficace è necessario “un vivo desiderio di farsi santo e di crescere nell’amore verso G. Cristo” (II, 10).

Da questi motivi devono scaturire due atteggiamenti: credere all’amore di Gesù Cristo ed obbligarsi ad amarlo (III, IV). Il Santo non esita ad affermare: “due grandi misteri di speranza e di amore sono per noila Passionedi Gesù Cristo e il Sacramento dell’altare: questi due misteri dovrebbero incenerire tutti i cuori degli uomini” (III, 7). Perciò le incitazioni sono insistenti: “È troppo poco un cuore per amare questo Dio così innamorato di noi. Per compensare l’amore di Gesù Cristo, bisognerebbe che un altro Dio morisse per amore” (IV, 2). A gran voce attualizza la parola evangelica “Non è già necessario l’essere ricchi in questa terra, il farci stimare dagli altri, il fare una vita comoda, l’avere dignità, l’avere fama di dotto; solo è necessario l’amare Dio e fare la sua volontà (IV, 10).

L’amore, come è visto da sant’Alfonso, deve essere timoroso, generoso, forte, ubbidiente, puro, ardente, inebriante, unitivo, sospirante (IV, 11). Chi vuole approfondire il contenuto del libro deve tener presente lo spirito che lo pervade. L’autore in esso vuole indicarci alcuni segni o criteri “per vedere se veramente in noi regna l’amore che dobbiamo a Gesù Cristo… per coservarlo in noi ed aumentarlo (IV, 12). In questo procedimento possiamo intravedere l’aspetto pratico dell’insegnamento del santo Dottore.

II primo segno dell’amore è la pazienza, che per sant’Alfonso significa “saper soffrire”: “si ha da patire e tutti han da patire: siano giusti siano peccatori, ognuno ha da portare la croce. Chi la porta con pazienza si salva, chi la porta con impazienza si perde” (V, 1). Egli è convinto che “una persona che non patisce ed a cui tutto il mondo applaudisce è vicina alla caduta” (V, 4). Con san Giovanni Crisostomo Egli ritiene che la grazia del patire è una grazia maggiore della stessa podestà di risuscitare i morti (V, 4) e commentando il passo di san Giacomo (I, 4) dice “che non vi è cosa più gradita a Dio, quanto il vedere un’anima che con pazienza e pace soffre tutte le croci ch’egli le manda (V, 5). Da ciò deduce la forza di segno attribuita alla pazienza: ciò fa l’amore! La pazienza perciò mette in risalto la forza dell’amore. Se c’è pazienza c’è anche l’amore: “Qui sta il merito di un’anima che ama Gesù Cristo, nell’amare e patire” (V, 6). Anzi Egli sollecitando nel cristiano la disponibilità a patire molto assicura: “è certo che chi patisce con più pazienza gode più pace (V, 7), e ricorda che “lo stato dei santi in terra è di patire amando: lo stato dei santi in cielo è di godere amando (V, 9). A mo’ di conclusione l’autore riferisce che per una perfetta unione con Dio, frutto dell’amore, sono necessarie le avversità, le infermità e le mortificazioni. Per un’anima ripiena d’amore “diventano delizie le ignominie e i patimenti” (V, 12‑13).

La dolcezza, secondo criterio, è quella forza spirituale che traduce nell’animo umano l’amore che è in Dio investendo gesti, parole ed atteggiamenti. La benignità è l’opposto della sopraffazione. La persona per esprimerla convenientemente “deve piuttosto pregare che comandare” (VI, 3). Sant’Alfonso pone sulle labbra di Gesù l’espressione: “Lo spirito mio è tutto dolce e benigno” per trarre poi la conclusione: “si guadagna più con la dolcezza che con l’amarezza… bisogna praticare la benignità con tutti ed in ogni occasione ed in ogni tempo: chi ama Dio conserva sempre la pace nel cuore e la dimostra anche nel volto (VI, 6‑8). Una indicazione singolare è quella di avere dolcezza anche con noi stessi: “quando l’anima sta disturbata, poco conosce Dio” (VI, 11).

Il Santo poi ammette come altro segno dell’amore l’emulazione santa in opposizione a quella cattiva comunemente chiamata invidia. L’emulazione è santa quando un’azione è fatta solo per Dio, perché non basta fare opere buone: bisogna farle bene e col puro fine di piacere a Dio; quando si rimane calmi se non si raggiunge l’intento prefisso, quando si è contenti del bene degli altri; quando non si va in cerca di consensi ed applausi” (VII, 3‑5).

Sant’Alfonso parla di quella “alchimia celeste” che trasformale azioni quotidiane dell’uomo in “oro di santo amore” (VII, 8). Quando l’uomo gode perché Dio gode ha raggiunto la perfezione dell’amore. “L’intenzione di dar gusto a Dio permette di godere quella santa libertà di spirito che hanno i figli di Dio (VII, 9). Coloro che sono “schiavi dell’amor proprio” vivono invece inquieti. E ciò può accadere anche quando si preferiscono esercizi spirituali ad altre opere che danno pure gusto a Dio (VII, 11).

Il desiderio della perfezione è il motore turbo del cammino spirituale ed è anch’esso azionato dalla grande leva dell’amore. Il santo afferma: “i desideri santi sono le ali che ci fanno alzare da terra” e fa suo il detto di S. Teresa: “i nostri pensieri siano grandi”. Anche in ciò il suo criterio discrezionale è lo stesso: “il volere di Dio deve preferirsi ad ogni nostro buon desiderio” (VII, 11); ed è necessario “risolversi a scegliere il meglio, non solo ciò che è di gusto di Dio, ma ciò che è di maggiore gusto di Dio, senza riserva (VII, 15). Altri criteri sono: la decisione, che non può essere procrastinata né fatta una volta per tutte: “ogni giorno dunque risolviamoci di cominciare ad essere tutti di Dio… Pochi sono quelli che da vero si fanno santi” (VIII, 17).

La preghiera, soprattutto la meditazione, è considerata dal Santo “la beata fornace ove si accende e si conserva il fuoco del santo amore. C’è un forte legame tra orazione e amore di Gesù Cristo: “Chi lascia l’orazione lascerà di amare Gesù Cristo” (VII, 20). Sant’Alfonso è convinto. che Dio nella preghiera “ci fa conoscere il grande amore che ci porta” (VIII, 33). Perciò insiste ad avere “grande fede alla preghiera” (VII, 37).

L’umiltà è una squisita espressione dell’amore anzi, secondo l’autore, è “un pregio di chi ama Dio” (IX, 1). Sono atteggiamenti contrari, all’amore: l’ambizione, l’amor proprio, l’ira. Chi ama deve purificare il suo cuore da ogni vana ambizione e deve desiderare unicamente “di essere ben voluto da Dio” (X, 1). L’unica ambizione desiderabile per un’anima che ama Dio deve essere di superare tutti gli altri nell’umiltà (X, 7). È ferma convinzione di sant’Alfonso che non si può essere santi a modo proprio, secondo il proprio genio: “chi vuole che Dio sia tutto suo bisogna ch’egli si dia tutto a Dio” (X, 5). In un cuore indiviso subito entra e lo riempie il divino amore (X, 7). L’ira è l’opposto della mansuetudine e dell’umiltà e trova alloggio nel cuore degli stolti che poco amano Dio: “un’anima che ama di cuore il Redentore non si trova mai di malo umore” (XII, 6).

L’amore di Gesù Cristo inoltre opera una grande libertà di spirito in coloro che amano la verità e si abbandonano alla volontà di Dio. La creatura che veramente ama vuole ciò che vuole Dio. L’uniformità però deve essere intera senza riserva e costante senza revocazione (XIII, 5). Il puro amore consiste nel volere “solo quel che piace a Gesù Cristo, quando lo vuole e dove lo vuole e nel modo che lo vuole Gesù Cristo” (XIII, 9). L’ubbidienza è il mezzo più sicuro per sapere e per essere certi di ciò che Dio vuole da noi (XIII, 15): “È un inganno il pensare che qualunque altra opera possa essere migliore di quella che c’impone l’ubbidienza” (XIII, 17). “Le infermità, la povertà, e i disprezzi” sono considerati dal Santo come “i regali di Dio a coloro che lo amano”: non soltanto bisogna avere pazienza, ma amare la povertà, i dolori e i disprezzi (XIV, 13‑15).

Più evidenti sono i legami tra la carità e le altre due virtù teologali. La fede è il fondamento della carità… mala carità poi è quella che perfeziona la fede. Chi più perfettamente ama Dio più perfettamente crede (XV, 2). La speranza fa crescere la carità e la carità fa crescere la speranza (XVI, 1), perché “la carità ci rende figliuoli di Dio ed eredi” (XVI, 2). Inoltre “chi più ama Dio, più spera nella sua bontà” (XVI, 3) e “più desidera di andare a godere Dio in Paradiso… Questo desiderio è puro e perfetto amore” (XVI, 8). Le prove più forti dell’amore sono le tentazioni e le desolazioni.

Le tentazioni non vengono mai da Dio ma a volte sono permesse per mettere alla prova il nostro amore (XVII, 1‑2) e la nostra fiducia in Lui (XVII, 6). Nelle desolazioni il Santo ammonisce “che l’amore di Dio e la perfezione non consiste nel sentire le tenerezze e le consolazioni” (XVII, 12). Nella vita spirituale non ci si può fermare alle “compiacenze sensibili”. L’anima ché veramente ama Gesù Cristo ben resiste nel crogiuolo della desolazione che è una pena più amara di tutte le pene interne ed esterne che può patire una persona (XVII, 22‑23).

Stemma episcopale di Mons. Antonio Napoletano, vescovo della diocesi di Sessa Aurunca dal 1995: in esso è inserito lo stemma redentorista disegnato da S. Alfonso per il suo Istituto nel 1732 .

Questo aureo libro dell’ascesi cristiana fu presentato all’attenzione di tutti dall’autore stesso come un’opera “molto utile… e la più divota di tutte quante le altre”. Al suo tipografo G. Remondini confidava che la stesura del volume gli era costata molta fatica. Il consenso è cresciuto nel tempo ed in ogni luogo. Ognuno ha attinto a questa fonte di saggezza umana e cristiana. Il P. B. Häring  sostiene che La Pratica di amare Gesù Cristo è il migliore dei lavori alfonsiani ed afferma: “Il tema costante è la vocazione di tutti alla santità; però egli (sant’ Anfonso) era profondamente contrario al giansenismo che nella Chiesa avrebbe voluto far posto solo ai perfetti. La sua era una visuale di conversione continua, ed egli vedeva il prete come una guida paziente che incoraggia i fedeli a fare un passo dopo l’altro” (Liberi e fedeli in Cristo, 1979,1, pag. 69).
Chi sfoglia le pagine di questo scritto alfonsiano si confermerà nella convinzione che 1′ amore di Gesù Cristo e non la paura ed il terrore è la norma evangelica della vita cristiana.
(L’Osservatore Romano, 1 agosto 1987)

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Riportato in
Sulle orme di S. Alfonso
di Antonio Napoletano
Valsele Tipografica, Napoli 1989, pp.17-22